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La patata di montagna pretende prezzi “alti”

Si è tenuta a Pizzoferrato, in provincia di Chieti, il meeting sulla pataticoltura nelle aree montane, organizzata dall’Associazione Nazionale Città della patata con il patrocinio del Ministero dell’Agricoltura, della Regione Marche e Abruzzo.

“Bisogna sostenere e sviluppare la qualità delle produzioni e dei territori nei quali il tubero più famoso al mondo è il vero protagonista della vita sociale, culturale ed economica” spiega Marcello di Martino, già consulente della città del vino e delle grotte e dal 2020 anche della patata.

L’associazione, istituita in pieno Covid, “vuole dare voce a tutte quelle piccole aree montane, dislocate in aree marginali e ad altitudini notevoli, che da sole non riuscirebbero a parlare, ma che riunite in un unico coro, possono, invece, dare un tono deciso per far valere la qualità dei prodotti della loro terra”.

Sono tutte produzioni di patate realizzate in condizioni non particolarmente favorevoli, caratterizzate da basse rese e dall’assenza di pratiche agronomiche che prevedano l’irrigazione. Ed oggi sono già diciannove i comuni, che dal Piemonte alla Sardegna attraversando la Sila, le montagne abruzzesi e lucane ispirano la propria conduzione agricola in base a questa metodologia.

“Riunirle sotto un unico cappello significa non solo tutelare la loro cultura e le tradizioni autoctone, ma soprattutto dare valore ai prodotti tipici e alla conseguente imprenditoria locale”, è inesorabile, infatti, lo spopolamento di questi luoghi a causa della mancanza di lavoro giovanile, mentre chi rimane, invece, e’ costretto ad offrire i propri prodotti a prezzi che svalutano la loro stessa qualità “come trovare una cassetta di patate a 1 € al chilo”.

E’ vero, queste realtà di certo non possono essere competitive con quelle delle aree di pianure visto che “qui le rese di prodotto sono significativamente inferiori” e tali quindi da non riuscire a soddisfare le richieste di una grande distribuzione, ma è altrettanto vero che sono proprio le basse rese a determinare la loro correlata qualità “recenti ricerche sul tenore dei polifenoli presenti nelle patate a basse rese hanno dimostrato come il gusto e la persistenza sia strettamente dipendente dal numero di queste molecole che tendono ad aumentare al diminuire delle rese della terra” afferma Roberto Rubino Presidente dell’Associazione Nazionale Formaggi Sotto il cielo (ANFOSC).

Rubino, chiamato come ospite durante la manifestazione, ha sostenuto, così, con decisione, l’equazione basse rese uguale gusto dimostrandola attraverso un panel di assaggio di patate di diversa origine geografica e di differenti rese unitarie.

“Esiste una stretta relazione tra la maggiore persistenza che si avverte in bocca e la causa, che, appunto, è determinata dalla nutrizione del tubero, migliore in considerazione della resa per ettaro”.

Se tutto quanto allora è vero, bisogna solo “diffondere il verbo” e insilare nelle menti anche dei consumatori che il prezzo delle materie prime non può sempre essere uguale. La qualità deve essere riconosciuta attraverso un gusto e anche attraverso un prezzo che sappia valorizzarlo. Ed è per questo che durante la giornata a Pizzoferrato si è ricordato il lavoro già svolto dall’Associazione, attualmente in lizza anche per essere iscritta nel Registro delle Associazioni di Comuni di Identità, e quello che intende perseguire in futuro.

“Vogliamo dare vita ad un marchio “La Patata d’Asciutta” un riconoscimento ufficiale che dia visibilità e valore aggiunto alle produzioni di patate dei nostri 19 comuni affilati” continua di Martino, sul cui sviluppo e successo l’Associazione non potrà prescindere dalla sigla di un accordo di collaborazione con il Ministro del MASAF, Francesco Lollobrigida.

Ma nel frattempo le parole iniziano già a concretizzarsi in fatti e TuberCook è la proposta presentata all’Assessore all’agricoltura delle Marche Roberto Antonini “si tratta di una kermesse che, anche quest’anno, coinvolgerà tutti i comuni della Città della Patata e i loro istituti alberghieri dove i ragazzi saranno chiamati a preparare un pasto completo dall’antipasto al dolce con le patate dei loro comuni”.

Nel mentre però si lavora anche capillarmente sul territorio e così per far conoscere il lavoro e il valore dei prodotti delle comunità montane, a breve nelle stazioni di servizio autostradali troveremo “Patabox”: una confezione di patate contenente i tuberi proveniente dai diversi comuni dell’associazione. Prodotti che avranno finalmente un nome e una carta di identità ben conoscibile “una qualità che dovrà andare a stretto giro anche con il suo valore economico perché è necessario che il valore di questi prodotti sia certificata proprio per poter garantire agli agricoltori anche il giusto riconoscimento economico”.

 

La misura scientifica del gusto per decidere cosa comprare e perché

I risultati della ricerca finanziata dalla Regione e condotta con l’Università della Basilicata

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Pizzoferrato. ‘Le città della patata’ a servizio dei territori montani

Si è svolta a Pizzoferrato l’assemblea Nazionale di Città della Patata, un incontro nella sala giunta del comune per valorizzare tutti gli aspetti econimici e culturali della coltivazione della patata. Presenti numerosi sindaci dei comune aderenti alla associzione di Città della Patata, oltre a produttori locali ed esperti del settore. Di seguito la scaletta del convegno dal titolo ‘Le città della patata a servizio dei territori montani’: Saluti istituzionali dei sindaci presenti: Diana Peschi (Civitaluparella), Maurizio Bucci (Gamberale), Angelo Piccoli (Montenerodomo) e Palmerino Fagnilli (Pizzoferrato). A seguire sessione di assaggio di patate a diversa resa produttiva per la determinazione del livello qualitativo del prodotto. Panel di degustazione composto da specialisti di analisi sensoriale, biochimica e organolettica a cura del prof. Roberto Rubino. E’ seguito il dibattito con Luigi D’Eramo, Sottosegretario Ministero Agricoltura, con delega alla pataticoltura, Andrea Maria Antonini, assessore Agricoltura Regione Marche, Marco Bussone e Lorenzo Berardinetti, presidente UNCEM Nazionale e presidente UNCEM Abruzzo, Sebastiano Delfine, docente di Produzioni Vegetali, Università del Molise, Francesca Severini, direttore di AMAP MARCHE, Lucio Zazzara, presidente Parco Nazionale della Maiella. Ha coordinato i lavori Marcello Di Martino.

In Sardegna al via un progetto per trasferire agli allevatori un metodo per misurare e migliorare il livello qualitativo di carne e formaggi, a partire dalla grande biodiversità dei loro pascoli.

Promuovere e incentivare azioni innovative per migliorare il livello qualitativo dei prodotti agroalimentari, è questo l’obiettivo posto al centro del programma “Progettare la qualità di carni e formaggi a partire dall’alimentazione degli animali al pascolo” promosso dall’Assessorato dell’agricoltura e riforma agropastorale della Sardegna con il sostegno del Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale  e gestito dall’Agenzia Laore Sardegna.

“In un contesto come quello sardo innovare significa integrare pratiche moderne con metodi tradizionali, mantenendo al centro la qualità del prodotto. Innovazione che non si limita alla produzione ma si estende al consumatore, che deve avere gli strumenti per riconoscerla. Ogni elemento innovativo quindi contribuisce a creare un prodotto di altissima qualità, profondamente legato al territorio” spiega Giampietro Carboni, agente di sviluppo e componente del gruppo di progetto.

Parole che vogliono trovare concretezza attraverso la realizzazione di “produzioni zootecniche ottenute da animali alimentati prevalentemente al pascolo”. Allevamenti non intensivi, basse rese e un’alimentazione a base di erbe, è questa la strada da percorrere, allora, per ottenere prodotti di qualità.

Per seguirla, però, è necessario che agli stessi agricoltori siano forniti gli strumenti per saperla riconoscere “molto spesso, infatti, sono gli stessi produttori che non conoscono il livello qualitativo dei loro prodotti”.

E se non si dispongono di chiavi di lettura per individuare la qualità aromatica e nutrizionale, chi produce non sarà mai in grado di conoscere il reale valore della materia prima prodotta, ecco perchè la proposta progettuale mira a sviluppare proprio queste competenze “al fine di accrescere le abilità di produttori e trasformatori”.

“Un percorso condiviso da tutti i soggetti coinvolti nella filiera può accrescere più facilmente e velocemente le competenze, favorendo altresì il recupero di buone pratiche”.

Ci saranno, allora, incontri informativi, attività dimostrative articolate in laboratori teorico -pratico e infine un viaggio in Francia a completamento del percorso “al centro di affinamento dei formaggi di Hervè Mons, poi a Beaune presso l’azienda Gaec Tixier farmer per approfondire i formaggi dell’Auvergne, mentre per porre ancora di più l’accento su quanto sia fondamentale la cooperazione tra gli allevatori per la valorizzazione di un prodotto ci sarà un incontro con la rete degli allevatori della vacca rossa di Aubrac  visti i risultati che sono riusciti ad ottenere attraverso la loro unione e in ultimo sarà prevista una visita al Centro di ricerca dell’INRA nella sede di Aurillac con i ricercatori e i produttori dell’Associazione formaggi tipici DOP della Auvergne”.

A breve verrà indetta una manifestazione di interesse alla quale tutte le aziende agricole del territorio potranno rispondere “dai pastori che conducono i propri animali in allevamenti estensivi, a chi, invece già li alimenta prevalentemente al pascolo così come anche per tutti gli altri soggetti coinvolti nella filiera, dai titolari di caseifici ai ristoratori”.

Nel mentre, però, l’Assessorato si è già attivato ricercando fin d’ora chi potesse dare fattibilità in tali attività, ed individuando nell’Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo (Anfosc) un valido contributo attraverso le conoscenze del suo Presidente, Roberto Rubino “da anni siamo impegnati a dimostrare come gli allevamenti da pascolo siano in grado di garantire prodotti significativamente qualitativi” osserva Rubino che, attraverso studi e ricerche ha dimostrato come “le caratteristiche organolettiche delle produzioni zootecniche di questo tipo sono infatti migliori proprio per il diverso regime alimentare dell’animale. La carica aromatica del latte, del formaggio così come della carne è data soprattutto da alcune molecole non volatili, che si riscontrano in quantità elevata nelle erbe dei pascoli, quali polifenoli e lipidi. Pertanto, il gusto, il sapore e l’aroma di queste produzioni sono notevolmente variabili in funzione della quantità e variabilità di erbe presenti nella razione alimentare”.

Tutto questo non avrà solo risvolti di corretta gestione nella produzione e nutrizionali, ma potrà servire anche ad aiutare il consumatore finale “offrendogli gli strumenti per riconoscere la qualità”.

E per non far ricadere tutto nell’oblio della memoria l’Assessorato ha previsto, inoltre, che queste forme di sapere dovranno, poi, convogliare nella creazione di un piccolo manuale di istruzioni per l’uso “una sorta di linee guida per le aziende così che sappiano sempre come rispondere alle esigenze degli animali e alla conseguente produzione di qualità” conclude Carboni.

Non ci resta che aspettare il via.

Tra critica e scienza gastronomica: cosa significa che il cibo è buono?

Quanti significati assume questa parola? Lo abbiamo chiesto ai più importanti critici gastronomici e chef dell’alta ristorazione.

Definire un cibo buono non è cosa semplice o almeno non è una cosa univoca.

Se la scuola tradizionale ci ha insegnato parole precise per raccontare la realtà attraverso termini compresi e conosciuti da tutti, quando si parla di cibo sembra, invece, che una gigantesca torre di Babele sia ricaduta su di lui.

L’impossibilità di rivendicare qualcosa di stabile e permanente ha generato un mare magnum di termini che sembrano aver svuotato di significato stesso il concetto di cibo buono.

“Come è possibile allora evocare giudizi di valore se non si conoscono i parametri di riferimento?”. È questa la domanda che per anni si è posto Roberto Rubino, Presidente dell’Associazione Nazionale Formaggi sotto il cielo.

Ed effettivamente vien da pensare a quali siano gli elementi che uno chef prende in considerazione per una buona cassetta di frutta o di pesce o da quali concetti, invece, parte la stampa di settore quando giudica poi un piatto creato proprio da quello chef.

“Non esistono dei parametri oggettivi” continua Rubino e sembra che la “colpa” sia tutta della scienza che nell’affaccendarsi a definire le caratteristiche organolettiche del cibo, ha, forse, dimenticato di studiare quali fossero, però, le molecole responsabili del gusto “perché è unicamente da loro che dipende il buono in un cibo”.

“L’interesse scientifico si è quasi sempre soffermato sui solo metaboliti volatili, responsabili dei profumi, ma questi non incidono in alcun modo sulle sensazioni gustative” è, allora, a quelli, cioè ai cosiddetti metaboliti pesanti, che la scienza dovrebbe rivolgere il proprio interesse, secondo Rubino, per andare alla ricerca del gusto e offrire, così, un prontuario al consumatore o all’avventore di turno che si siede a tavola per degustare.

E, invece, continuiamo a navigare in assenza di un manuale di istruzioni per l’uso, le parole diventano modellabili, prive di un significato univoco e l’ingegno umano che inizia allora a scorrere su un campo dove nulla è definito, plasmandosi di penna in penna e mestolo in mestolo, alla ricerca delle coordinate del buono.

Come fare a trovare un’unica strada maestra? Un nuovo linguaggio costruito  insieme tra scienza, ristorazione e critica gastronomica è possibile?

La critica gastronomica

È partendo da un trittico di elementi “genetica, esperienze di vita e conoscenza” che Edoardo Raspelli – conduttore televisivo, scrittore e per decenni penna arguta di molte testate giornalistiche – traccia la sua etimologia di cibo buono.

“Alla sera quando mio padre rientrava dal lavoro sapeva elencare tutti gli odori che aveva incontrato nei quattro pianerottoli che attraversa prima di aprire la porta di casa”.

Una sensibilità ereditata che Raspelli si è portato in tutti i suoi numerosi viaggi gastronomici “sviluppando il palato attraverso le esperienze e un continuo rimescolio di affondi tra i ricordi del passato e ciò che mi ritrovavo nel piatto in quel momento”.

“E’ in questo modo che ho iniziato a capire che il buono stava tutto nella semplicità” con il ricordo che va ai piatti della cucina di Gualtiero Marchesi “tra verdure appena scottate e sapori essenziali” eppure il tono inizia a farsi lieve, quasi di rammarico con la mente che corre ai tempi di oggi “che invece esaltano solo fantasie estreme. Profumi di piselli, aria di ceci, ma che senso ha? Gli chef pensano a scioccare, piuttosto che a cucinare”.

Difficile, allora, secondo il critico, riconoscere il buono in questa era “se continuiamo a camuffare ogni piatto, non stiamo andando più alla ricerca del buono, ma solo del bello”.

Ci vuole, invece, coerenza per Antonella de Santis del Gambero rossosapienti cotture e materie prime di qualità” perché a meno che non si tratti di raccogliere un frutto o un ortaggio e mangiarlo così com’è, il suo essere buono dipenderà necessariamente dall’ingegno umano in cucina “anche una semplice bollitura, se non eseguita correttamente può minare la qualità della materia più eccellente”.

Nella ricerca del buono Stefania Petrotta, organizzatrice di eventi e giornalista enogastronomica , aggiunge, poi, l’elemento evocativo “che non significa necessariamente la cucina della nonna o della mia vita personale, ma di quel valore che nel piatto sappia riportare alle materie prime utilizzate e ai modi di cucinare di un luogo e del suo tempo”, mentre per la penna di Identità golose Clara Minissale sono “i continui impasti tra soddisfazione mentale e fisica” che amalgamandosi tra loro formano la semantica stessa del buon cibo.

Quella stessa che dovrebbe allora coincidere con l’etimologia della critica, dal greco krínein giudicare, scegliere separando “perché chi è chiamato a valutare la bontà di un piatto deve escludere il piacere personale” secondo la direttrice de Il Gusto, Eleonora Cozzella che cerca, allora, di astrarsi da quello che piace al suo palato “per concentrarmi solo sugli aspetti tecnici”.  È allora alla freschezza degli ingredienti che si presta attenzione, alle loro cotture o agli impasti, ma “c’è bisogno anche di moltissima esperienza, l’unica che ti consente, poi, di valutare l’armonia e l’equilibrio delle singole componenti messe insieme tra loro”. Solo su queste basi si può parlare di buono “che non si può di certo riassumere in un mi piace o non mi piace perché questa sarebbe solo autoreferenzialità di un gusto personale che non dovrebbe mai appartenere alla critica gastronomica”.

Ciò che è certo, comunque, è che non si può essere dei cultori del cibo solo perché si ama mangiare e la costruzione di una carta dei sapori deve allora saper incrociare anzitutto “la memoria, perché ognuno di noi ha codificato qualcosa fin dai primi giorni di vita riportandolo ad una sensazione riconoscibile o meno di piacevolezza” passando poi per l’esperienza “indispensabile per allenare il palato”.  Sono questi gli elementi che se sommati, secondo Fabrizio Carrera direttore di Cronache di Gusto, tracciano il significato stesso di un piatto buono “che deve essere armonioso, sintesi perfetta di equilibrio, sapore e imprinting sensoriale”.

La scienza

Secondo il Presidente dell’Associazione Nazionale Formaggi sotto il cielo (ANFOSC) “bisogna affidarsi a livelli di accuratezza e a protocolli definiti quando si prendono in considerazioni alcune caratteristiche del cibo che sono sinonimo di qualità del prodotto stesso. La bontà di un alimento non è assolutamente soggettiva e i responsabili della qualità e della persistenza sono i composti a più alto peso molecolare contenuti nei singoli alimenti”.

Per poter dimostrare che il gusto è strettamente collegato con la presenza, più o meno rilevante, soprattutto di polifenoli, Rubino ha impiegato anni di ricerche, esami e degustazioni individuando così quelle molecole in grado di incidere sulle caratteristiche organolettiche del cibo “e tra queste un ruolo determinate è sicuramente da attribuire ad alcune classi di polifenoli, come i tannini, i flavonoidi e gli acidi fenolici”.

Come si fa allora ad andare sulle tracce di una patata che abbia un contenuto di polifenoli maggiore ad un’altra? “abbiamo riscontrato che la presenza e il numero di queste molecole è strettamente dipendente dalla resa per ettaro, in coltivazioni non intensive i prodotti presentano una maggiore presenza di polifenoli e conseguentemente ciò aumenta anche la loro qualità”.

Le coordinate sembrano allora molto facili pur non essendo degli esperti di chimica, l’importante è dirigersi su un’unica strada maestra: quella del contadino che sa cosa sta facendo.

La ristorazione

E l’imbuto linguistico sembra stringersi e assumere significati talora affini a quelli proposti da Rubino quando si arriva in alcune cucine della ristorazione, dove il buono percepito da chi sta dietro ai fornelli assume forme e sostanze in ogni caso diverse a seconda della sensibilità ed esperienza personale.

Così per l’ultimo dei monsù napoletani, Antonio Tubelli la ricerca del buono passa necessariamente dalla ricerca della persona che coltiva la materia prima o la alleva: “parte dall’origine, da dove se no? La responsabilità del buono dipende da chi coltivava e dall’intensità del rapporto che ha con la sua terra”.

Un legame difficile da stringere oggi secondo Tubelli “visto che la figura dell’ortolano è stata sostituita da quella del generico contadino” con quel lavoro certosino del primo, che curava pochi prodotti facendosi custode della loro qualità, soppiantato, sul finire della Seconda guerra mondiale, da quella del contadino, intento, tra maggiori derrate a una genericità di coltivazione.

È qui allora che il suo monito si fa perentorio, “dinanzi a una cassetta di melanzane che sembra essere appena uscita da un lustrascarpe, diffidate anche se è di un contadino” e in una disamina appassionata osserva che è proprio a partire da quella cassetta che nelle sale dei ristoranti finanche alle tavole della domenica in famiglia che si è generata una confusione tra quello che è la piacevolezza e quello che è il buono. Un indottrinamento sensoriale distante dalle reali coordinate del gusto, camuffato dall’eccessiva manipolazione in cucina “e anche da un’estetica capace con i propri espedienti di farci scordare la povertà gustativa di ciò che ci propone”.

Se per Tubelli il buono sta, allora, tutto nell’origine, è, invece nella “sinfonia degli elementi messi insieme con criterio, ordine, studio, tecnica e precisione che si genera il buono in un piatto” secondo Francesco Sposito, due stelle Michelin per il suo ristorante Taverna Estia in provincia di Napoli, a Brusciano “non basta una singola materia prima, ma è la trasformazione e la commistione con le altre, che creano un’orchestra”.

Eppure, trovare la giusta melodia non è sempre così semplice “la cosa più difficile per me è fare la spesa” dice Nino Di Costanzo, che nel suo Danì Maison ad Ischia, celebra il ruolo attivo e centrale delle singole materie prime “ci vuole rispetto quando si utilizzano e bisogna partire sempre da un concetto”.

Così il buono per il due stelle Michelin sta “in un insieme di attenzioni che si trasferiscono poi al gusto di quel piatto”. La chiamano eccellenza “ma bisogna andare dal piccolo produttore, conoscere il casaro e svegliarsi al mattino presto per scegliere le verdure migliori. Non si può fare la spesa su un catalogo e ricercare l’eccellenza su un listino”.

Dalle parole della critica e della ristorazione sembra proprio che il “gioco” stia allora tutto nel cambiare approccio al cibo, smetterla solo di guardarlo e istallare un sapere concreto, privo di suggestioni. “Per farlo è, però, necessario cogliere il suo reale livello qualitativo” continua Rubino e, allora, seppur in assenza di un vocabolario completo fornito dalla scienza, sembrano, però, non esserci dubbi anche per la critica e la ristorazione, che alla lettera M ci sia indiscutibilmente una “materia prima di qualità” per poter riconoscere il buono e i cui parametri ben potrebbero iniziare ad essere scritti ed utilizzati attraverso gli studi e i risultati portati avanti da Anfosc.

 

5 Miti da sfatare sulla Pasta

Trafilata, essiccata, integrale, quando si parla di pasta i suoi aggettivi abbandono. Involucri sempre più stilosi, ricercati (e costosi) sembrano voler generare indiscutibilmente anche la sua qualità. Ma in quei pacchi da 500 grammi, confezionati con fare accurato e casalingo, la parola grano dove è andata a finire?

Con Roberto Rubino, presidente dell’Associazione Nazionale Formaggi sotto il cielo (Anfosc), cinque riflessioni per ricercare il seme perduto, quello del grano.

Trafilatura al bronzo o al teflon?

Festina lente il motto che guidò l’Impero Romano ai suoi fasti. Lo stesso che richiede anche la produzione di una pasta di qualità “trafilando la pasta a basse temperature, e quindi con tempi maggiori, le molecole del grano vengono degradate più delicatamente, subendo quindi minori danni, e in questo modo la loro elevata resta comunque elevata rispetto alla quantità di partenza” dice Rubino.

Ma se un’essiccazione lenta a bassa temperatura è in grado di intaccare il meno possibile le caratteristiche organolettiche e nutrizionali del prodotto, non si tratta, però, secondo Rubino, di un elemento sufficiente a garantirne l’assoluta qualità.

La convinzione insita di aver acquistato un prodotto indiscutibilmente buono proviene solo dalla sensazione che evoca, da quella rassicurazione, anche per il prezzo pagato, che si tratti di un prodotto di oggettiva qualità. “La trafilatura, però, è pur sempre solo una tecnica di produzione, che presa singolarmente non è indice di qualità, è alla materia prima, al grano utilizzato in partenza, che bisogna riferirsi per poterla valutare”.

E se il prezzo di una pasta trafilata al bronzo arriva a sfiorare anche i 10€ al kg, la più comune pasta che ondeggia tra gli scaffali dai 60 centesimi ai 2 euro a confezione “e’ prodotta attraverso una trafilatura in teflon” un materiale, simile alla plastica, che consente la trasformazione nel prodotto finale in tempi molto più ridotti grazie alle alte temperature “il rischio, però, è che il forte impatto termico generi una rottura repentina delle molecole contenute nel grano, diventando così meno biodisponibili e cambiandone anche il valore nutrizionale”.

La trafilata in bronzo sembrerebbe escludere questo rischio, ma Rubino resta comunque in guardia, perché “se il grano di partenza utilizzato per una pasta trafilata al bronzo è di scarsa qualità, allora meglio una pasta al teflon prodotta da un grande grano”.

Integrale o bianca?

Un ragionamento questo che pare iscriversi anche sull’annoso dilemma integrale è meglio che bianco?  Se sul “mi piace” nessuno dissente, sul perché sia buono o meno basti sapere che “in un processo di raffinazione si perde una parte delle qualità del grano, quindi di sicuro l’integrale è da considerarsi, sotto questo aspetto migliore perché meno togli, quindi, e più ricco sarà il suo prodotto finale” continua Rubino.

“La molitura come l’alta temperatura priva il grano di molecole, ma anche in questo caso tutto dipende dalla materia di partenza e se questa è scarsa allora nessuno dei due processi può considerarsi migliore o peggiore dell’altro”.

La pasta non cuoce mai

Come si fa allora a ricercare l’origine? La strada proposta da Rubino non è di facile percorrenza e le indicazioni dell’ignoto paiono sempre più fitte. “La maggior parte delle farine utilizzate per la produzione della pasta e del pane sono miscelate. Dai piccoli pastifici sino alle grandi fabbriche la richiesta ai mulini è sempre la stessa: ottenere una miscela di grani che abbiano solo un adeguato grado proteico”.

Ma perché tra tante molecole proprio la proteina? È lei che serve e aiuta i tempi moderni, velocizzando i processi di trasformazione “non a caso la pasta che costa meno è proprio quella che ha un più alto livello di proteina”.

“Un suo alto contenuto aiuta a non far attaccare la pasta e a non farla scuocere, inoltre aumentando le temperature questo rischio si sconfessa ulteriormente, anche se si impiegano semole non eccellenti”.

Secondo Rubino, però, raggiungere il punto di cottura o amalgamarsi perfettamente al condimento non ha nulla a che fare con il gusto “perché fra la proteine e il flavour non esiste alcuna correlazione”.

Tutto allora diventa un po’ uguale a se stesso, tutto un po’ più piatto e al “contentino” di avere una pasta ben cotta il contraltare rischia di essere il piattume anche dei gusti e dei sapori.

“Una pasta trafilata al bronzo prodotta da grani di buona qualità, che equivale a dire coltivati con basse rese, e’ questo è l’inizio per poter parlare di gusto” il presidente dell’Anfosc, ricorda, infatti, come il responsabile principale del gusto in un cibo sia da rinvenirsi nel numero e nel contenuto di polifenoli, di terpeni e di lipidi la cui presenza in misura maggiore o minore dipende dalla nutrizione della piante e, conseguentemente,  anche delle resa per ettaro della stessa.

Il grano italiano è di qualità superiore a quello estero

Se così fosse l’assunto dovrebbe essere che tutto il grano italiano è uguale e che tutto questo grano sia allora di qualità. Ma questa tesi, osserva Rubino, si perde in un ragionamento che non regge.

“Se partiamo dall’assunto che la precursora della qualità di un grano sia solo la proteina allora dovremmo anche sapere che i grani stranieri, come quello canadese, hanno in media più proteina di quelli italiani” per ritrovarci poi nello strano paradosso che gongola tra gli scaffali dei supermercati americani rimpinzati, però, di pacchi di pasta italiana.

Ma se in una fetta di pane, come in un singolo spaghetto, sono presenti oltre 500 molecole aromatiche, le cui combinazioni definiscono e influenzano il gusto percepito dal consumatore, come è possibile dare tutta la responsabilità a una, singola e innocua molecola come la proteina?

Alla ricerca (disperata) dei grani antichi

La sacralità, che investe gli attuali tempi moderni, quella cioè di scavare nei meandri di un passato remoto e di idolatrare cibi antichi, ormai dimenticati, a prodotti di assoluta qualità, non fa sconti neanche nel mondo del grano.

E così passando per il mito che quello che oggi non c’è più oggi è indiscutibilmente più buono ecco che un grano dal profumo di un tempo remoto viene erto a indiscutibilmente come migliore.

L’idea che sta dietro questa mitologia è che tutto il processo di industrializzazione ci abbia tolto il senso delle cose genuine, senza darci nulla “ma la qualità del grano dipende unicamente dalla sua coltivazione”.

Non è vero allora che si mangiava meglio quando si stava peggio “e non esiste, poi, alcuna evidenza scientifica che consenta di attribuire ai grani antichi caratteristiche così conclamate da renderli superiori alle varietà moderne”. Si mangia meglio solo se c’è una coltivazione ragionata e una ricerca applicata alla produzione. E in soccorso al ragionamento di Rubino arriva l’immagine di una viticoltura di qualità “una vite centenarie sfruttata con rese alte non darà mai un buon vino solo perché è antica”.

Tutto ritorna allora alle origini e al primo seme “le coltivazioni a basse rese incidono significativamente sul gusto della pasta e del pane, perché è il grano l’unico responsabile del flavour. Con la tecnica possiamo fare solo danni”.