Il latte alimentare sembra tutto uguale, nel prezzo e nella qualità. Ma i consumatori hanno il diritto di fare scelte mirate e consapevoli. Non possono, perché c’è un fattore di disturbo: una legge.
di Roberto Rubino
D’estate il consumo di latte tende a diminuire perché parte dei consumatori va in vacanza, si sposta, cambia anche leggermente il modo di far colazione e l’industria va in difficoltà.
E per un settore che sta già soffrendo per la riduzione dei consumi determinata dal Covid, questa tornata di ferie è una ulteriore fonte di preoccupazione.
Si dice che le crisi a volte possano diventare un’opportunità perché si viene obbligati a rompere con la quotidianità e a ricercare percorsi alternativi.
Quale potrebbe essere la strada nuova che il mondo del latte potrebbe intraprendere?
In questo periodo mi trovo a Göteborg, in Svezia, un paese che non ha certo tradizioni casearie.
Di allevamento sì, ma da queste parti il freddo, le distanze, l’ acqua e il mare dappertutto, le foreste non hanno certo favorito nel passato la produzione e il consumo di latte e formaggi.
Non a caso il prodotto tradizionale derivato dal latte della penisola scandinava è il mysost, un formaggio che si ottiene bollendo il siero con l’aggiunta di latte o crema.
Ne deriva una massa bruna, dolce che viene usata a colazione.
Ci mancavo da molti anni e con sorpresa ho notato che l’offerta casearia di tipologie locali è comunque importante e di alto livello.
È vero che siamo in estate, gli animali sono al pascolo, ma le diverse tipologie, certo e naturalmente tutte che richiamano formaggi noti e famosi (ma in fondo stiamo parlando di ricette, non brevettabili), si presentano tutte di un colore giallo, segno che l’attenzione verso la qualità rimane un segno distintivo della cultura di questo popolo.
Ma la mia attenzione non si è soffermata sui formaggi bensì sul latte alimentare.
Da noi, generalmente, anche in un grande supermercato, trovi due, tre marchi di latte in un angolo di uno scaffale, a volte anche difficile da trovare.
Qui, intere vetrine refrigerate ospitano molti marchi, ciascuno dei quali propone diverse tipologie in formati differenti.
Ma i livelli qualitativi mi sono sembrati due: un prodotto normale, industriale che diversifica solo per il contenuto di grasso: 0’1%, 1%, 1,5%, 3%, 4.2%.
E un livello biologico o naturale, sempre con la variabilità del contenuto di grasso.
E comunque ho visto che entrambi hanno, in questo periodo, lo stesso livello qualitativo perché il rapporto saturi/insaturi è sotto 60/40, mentre da noi è sempre intorno a 70/30 e in alcuni casi anche di più.
Teniamo presente che, nel caso di animali che pascolano su prati polifiti e senza mangimi, questo rapporto scende sotto il 50/50.
Aggiungo che, da solo, questo rapporto potrebbe essere non così importante, ma siccome il suo valore dipende dall’alimentazione e dal pascolamento, che a loro volta influenzano tutti gli altri parametri, come il flavour e il valore nutrizionale, allora possiamo prenderlo come indicatore del livello qualitativo nella sua globalità.
Non a caso questo latte è giallino e ha gusto, personalità.
In Italia invece, unico paese al mondo, siamo fermi al latte denominato di “Alta Qualità”, per effetto di una legge voluta dai produttori nel lontano 1989.
Di anni ne sono passati molti e credo che gran parte dei consumatori e degli stessi produttori non sappia esattamente cosa voglia dire quel marchio.
Gli anni ’80 sono ricordati che l’epoca del reaganismo e della deregulation.
Il latte estero faceva paura, perché costava meno di quello italiano.
A quel tempo si parlava poco di latte fresco e molto di latte UHT.
Gli allevatori pensarono bene di puntare sul latte fresco pastorizzato, anche perché il latte che veniva dall’estero veniva pastorizzato due volte e, questo, nel regolamento dell’Alta Qualità era vietato.
Quindi, dovendo scegliere dei parametri da rispettare e controllare, si scelsero soprattutto quelli che avevano una relazione con il livello di igiene del latte: la carica batterica e le cellule somatiche.
Fu messa anche un’asticella al grasso, alle proteine e alle sieroproteine, molecole queste che però poco o nulla hanno a che fare con il livello qualitativo.
Ma la sostanza fu che il limite igienico fu talmente basso che poterono aderire solo le aziende più intensive.
Morale della favola, le aziende più efficienti e industrializzate producevano e producono ancora il latte di Alta Qualità. Un ossimoro, praticamente.
Queste aziende si vantano di tenere alti i livelli produttivi medi per vacca e, si sa, c’è una relazione negativa fra qualità e quantità.
L’obiettivo poteva anche essere nobile, ciascuno combatte con le armi che la cultura gli ha fornito, ma utilizzare una parola che richiamasse un valore è fuorviante e inappropriato per uno Stato che deve garantire la salubrità e non fornire indicazioni sulla qualità.
Anche perché i parametri utilizzati cambiano nel tempo mentre le leggi, soprattutto da noi, sono eterne.
Ma come spesso succede i problemi non vengono mai da soli.
La ricerca ha subito affiancato e sostenuto questa tesi dimostrando che, in effetti, il sistema di alimentazione basato su silo-mais e una quantità di mangimi che va dal 50 al 70% della razione non abbassa la qualità, anzi la migliora.
Ma come sempre, dipende da quali parametri scegli. Io ogni volta che penso a questi parametri, sorrido, perché mi viene in mente una battuta che circolava fra noi ragazzi tanti anni fa:
alla domanda” ma come fai a stare con una donna così brutta”? l’uomo interpellato risponde: mi piace come sputa.
E per capire il livello di questo latte basta semplicemente guardare o assaggiare i derivati e soprattutto il burro e la ricotta: bianchi e con odore e gusto appena accennati.
Viceversa, con il latte di animali al pascolo, il tutto si esalta.
Non scendo nei dettagli, ma le differenze possono essere anche di venti volte.
E questo vale anche per le molecole che hanno valore nutrizionale come il rapporto omega6/omega3, il CLA, gli antiossidanti.
Non mi sono quindi meravigliato quando, tempo fa, in televisione ho sentito un nutrizionista dire che il latte di Alta Qualità è quello che assicura il miglior livello qualitativo.
Va detto ad onor del vero che il latte di Alta Qualità non è tutto uguale.
Alcuni allevatori, invece degli insilati, usano buoni fieni e tengono il livello dei mangimi intorno al 50 %, ma stiamo parlando di una piccola minoranza e, soprattutto, il consumatore non ha strumenti per capire queste differenze.
È vero che in Italia incominciano ad essere presenti sul mercato modelli che vanno nella giusta direzione, tipo il Latte Fieno e il Latte Nobile, i cui disciplinari sono simili perché prevedono una razione che abbia almeno il 70% di erba o fieno, ma è venuto il momento, per questo settore, di rivedere l’intera strategia di mercato e di produzione.
Questa legge ha fatto il suo tempo e va semplicemente abolita, con un solo articolo. I disciplinari dei formaggi vanno rivisti, come hanno fatto in Francia, abbassando la quota mangimi, perché solo così si alza il livello qualitativo del latte e del formaggio.
Altrimenti la distanza fra noi e i formaggi esteri si allargherà sempre più.
Smettiamola di pensare che i consumatori siano tutti uguali e che non vogliano pagare il giusto.
Come faccio io a comprare un buon latte se trovo solo quello di Alta Qualità e, purtroppo, so pure quale è il suo livello qualitativo?
Nel 1989 si aveva una idea molto nebulosa sulla qualità, oggi invece ne sappiamo abbastanza per decidere a tavolino a che punto mettere l’asticella, come si fa nel mondo del vino dove con lo stesso vitigno e, volendo, nella stessa vigna, il produttore decide già al momento dell’impianto del vigneto quale dovrà essere il costo della bottiglia.
Oggi nel mondo dei formaggi tutto è uguale, i prezzi e il livello qualitativo, salvo poche e rare eccezioni.
Allargate l’offerta, cari produttori, perché i consumatori non hanno tutti gli stessi gusti e, soprattutto, raccontate come alimentate gli animali, perché la qualità dipende quasi esclusivamente da questo unico fattore!