Degustando s’impara

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L’osservazione della crosta e della pasta, il suo colore e i suoi buchi “lunari” ci hanno già dato preziose informazioni e, se siamo stati degli attenti lettori, sappiamo già quasi tutto di questo formaggio. Dovremmo aver captato la maestria del casaro, se ci troviamo di fronte a una tecnica che ha peggiorato la qualità del latte oppure se, nonostante o a prescindere dalla qualità del latte, chi ha trasformato quel latte ha fatto in pieno il proprio dovere, ha esercitato al massimo la propria arte. E, almeno nei formaggi prodotti con latte bovino e ovino, dovremmo già preconizzare quali sentori, quali note aromatiche ci dobbiamo aspettare. Adesso non ci resta che verificare se e di quanto ci siamo sbagliati.

Il metodo

Prima però di passare alla degustazione, dobbiamo riflettere un attimo sul metodo, sulla tecnica stessa del degustare, perché non è indifferente, ai fini del risultato finale, come ciascuno di noi si appresta e poi esegue l’assaggio. Il risultato, come per qualsiasi azione che facciamo, dipende dagli obiettivi che ci poniamo. Se ce li poniamo. A questo proposito mi viene sempre in mente la famosa frase di Totò: scusi, per andare dove dobbiamo andare da che parte dobbiamo andare? Che, se vogliamo, è il risvolto comico di un’altra famosa frase, questa volta di Seneca: che serve la brezza al marinaio se non sa dove dirigere il timone? Mi spiego meglio. Per molti aspetti e per il fatto che la moda, se possiamo chiamarla così, della degustazione del formaggio segue di qualche decennio quella dei corsi di sommelier, la tecnica messa a punto risente del metodo utilizzato nel mondo dei vini. Quindi, prima si osserva attentamente il colore, poi l’odore e poi si cercano di individuare le note aromatiche. Antonio Albanese, da fine comico qual è, ci ha lasciato sketch lapidari in proposito: dopo vari secondi di continui rigiri del bicchiere, con certezza assoluta dichiarava: vino rosso! Certo i tempi dei comici non sono quelli dei sommelier, occorre pure trovare le parole per lasciar passare almeno un’oretta girando il bicchiere e provando a individuare e condividere note aromatiche le più astruse, immaginifiche e criptiche. Ma alla fine cosa abbiamo appreso? Se va bene, abbiamo fatto una foto del prodotto, abbiamo un quadro da contemplare o da giudicare. Ma di cui ne sappiamo meno o quanto prima. Mi spiego meglio. Una volta mi sono trovato a una degustazione in Sicilia, in una cantina il cui proprietario decantava il lungo lavoro di recupero di un vitigno locale: il Catarratto. Lo stesso proprietario, all’inizio della degustazione, richiamava l’attenzione di tutti sulle note aromatiche che quel vino esprimeva, quel sentore di fruttato, soprattutto di frutta esotica, fra cui la banana, che era molto evidente. Essendo un ospite non ho detto niente al momento. Quando poi si è seduto al nostro tavolo, alla sua domanda sulle nostre impressioni, mi sono limitato a dire: ma se quelle note di fruttato dipendono dai fermenti che vengono utilizzati, perché le decantate come espressione del Catarratto? E se ci troviamo di fronte a un vitigno autoctono, quali sono le sue caratteristiche? Risposta lapidaria e disarmante: perché alle donne piace un vino con queste caratteristiche. Se a questo aggiungiamo che oggi, la stragrande maggioranza dei vini bianchi ha questi sentori di fruttato e a volte sono tanto forti da inficiare anche la degustazione, allora a cosa serve un metodo di questo tipo? Non sarebbe meglio, più istruttivo per tutti, non limitarsi a raccontare le note aromatiche ma dire anche da dove e perché queste si formano e scaturiscono? Nel primo caso noi facciamo solo la fotografia di quello che percepiamo, nel secondo caso, noi ne daremmo le motivazioni, dando informazioni importanti ai consumatori e agli stessi produttori, perché in questo modo qualcuno potrebbe anche esprimere la sua disapprovazione e il produttore si potrà regolare di conseguenza.

Nel settore caseario, questo metodo ha subito una deviazione verso la struttura della pasta. Non avendo molto da raccontare sulle note aromatiche- i fermenti che pure si utilizzano, non hanno lo stesso potere di quelli del vino-, nella degustazione si privilegia la struttura, l’elasticità, la granulosità, la cremosità della pasta. Ma anche questa è figlia della tecnica. Certo, ogni formaggio ha una sua struttura specifica e quindi, la sua lettura deve coincidere con quella classica. Tutti sanno come deve essere la struttura del Parmigiano Reggiano, formaggio fra i più noti al mondo. Ma se ci troviamo a degustare un Idiazabal, o un Gouda, o un Cabrales, o anche un Pecorino di Filiano, quanti sapranno dire se quella struttura che sta valutando è in linea con quella classica? E una mozzarella? Al Sud le mozzarelle di bufala, i Fior di Latte e le ricotte devono essere del giorno, già il giorno dopo il consumatore storce il muso. Ma non così nel resto del mondo. E così per altri formaggi che non conosciamo ma che ci troviamo a degustare. Quindi, al massimo la struttura ci potrà dare indicazioni sulla tecnica; ma questa, visto che il formaggio si fa tutti i giorni, il casaro, volendo, potrebbe sempre cambiarla per adeguarla al gusto dei consumatori. Come d’altronde già fanno i produttori di mozzarelle, che producono una tipologia da consumo immediato per i consumatori locali e un’altra per quelli che la utilizzano lontano dal luogo di produzione. Per questo, limitare tutto alla tecnica non ci porta molto lontani nella conoscenza del prodotto.

Quindi, per ritornare all’obiettivo della degustazione, visto anche la situazione del settore caseario, dove la qualità è molto precaria, a noi interessa poco la semplice fotografia, non fa migliorare nessuno. Noi vogliamo cogliere le specificità, le note aromatiche, vogliamo soprattutto capire non “di che pasta è fatto il formaggio”, ma il tipo di latte utilizzato, se gli animali sono al pascolo o alla stalla, cosa hanno mangiato gli animali, visto che la qualità dipende molto da questo elemento tanto trascurato. E soprattutto, se c’è un difetto, o una nota aromatica particolare, a che cosa possono essere ascritti, se c’è una responsabilità del casaro. Ma ancora di più, vista la situazione del mercato dei formaggi, se il prezzo che abbiamo pagato è quello giustoe non solo per noi, ma anche per il produttore.

Perché questo passaggio è importante? Perché, contrariamente a quello che succede nel mondo del vino e di altri prodotti alimentari trasformati, la forbice dei prezzi, fra il formaggio meno caro e quello più caro è minima, ridicola, offensiva per chi produce qualità. E poiché sappiamo che la differenza qualitativa fra un formaggio prodotto con il latte di animali al pascolo ed uno con quello di animali alla stalla alimentatati con insilato di mais e mangimi è enorme, fino anche a 20 volte, allora o i prezzi di questi ultimi sono alti o sono bassi quelli dei formaggi di qualità. Se noi saremo bravi a leggerne la potenzialità e la specificità, potremo essere dei consumatori non solo informati dei fatti ma anche giudici giusti del lavoro di chi li ha prodotti. Saremo noi a incidere sul mercato e sui prezzi, non come avviene adesso, dove chi decide è solo l’industria casearia, con le conseguenze drammatiche di una deriva della qualità e della scomparsa di chi fa le cose per bene.

I segnali percepibili della qualità

Ma cosa dobbiamo ricercare al momento di mettere in bocca un pezzo di formaggio, quali sono i segnali che ci permettono di risalire al sistema di alimentazione e alla maestria del casaro?

 Il primo, il più importante è l’equilibrio fra le note aromatiche, che deve rimanere tale fino alla fine della degustazione di quel pezzo di formaggio. Un eccesso di sale, la punta d’amaro, un’acidità elevata accompagnata da una gessosità della pasta ci fanno capire che il casaro si è distratto nel corso della lavorazione. Invece sentori anomali, di stalla, ci riconducono a una scarsa igiene del latte. Il sistema alimentare lo ritroviamo invece nell’evoluzione lenta e armonica delle note aromatiche, nell’assenza di spigolosità come il pungente, il metallico, tutti elementi questi che dipendono da un’alimentazione squilibrata. Se invece la degustazione scorre piacevole, senza note “dolenti”, vorrà dire che il casaro è stato bravo e che l’alimentazione era bilanciata bene.

Ma a noi interessa conoscere soprattutto la qualità dell’alimentazione dell’animale, perché è questa che andrà a influenzare l’aroma, il gusto, il flavour e il valore nutrizionale del formaggio. Come facciamo a captare questi segnali? Dalla lunghezza, dall’intensità e dall’evoluzione delle note aromatiche. La nostra bocca funziona un poco come un gascromatografo, lo strumento che si usa in laboratorio per misurare le sostanze volatili aromatiche contenute nei cibi. Poiché ogni nota aromatica ha un peso molecolare diverso e si libera nell’aria, dal momento che sono volatili, in tempi diversi, il gascromatografo e le cellule olfattive retronasali ne registrano la quantità e la diversità di ciascuna di esse. La quantità, in generale, dipende dalla quantità di erba che l’animale ha mangiato; l’evoluzione, invece, cioè la diversità delle molecole, dipende essenzialmente dal numero e tipo di erbe diverse, perché ogni erba apporta un patrimonio diverso e specifico di molecole. A volte possiamo trovarci di fronte ad un formaggio che presenta un lungo retrogusto, anche abbastanza intenso, ma che non evolve, sempre uguale. In questo caso quasi certamente ci troviamo di fronte ad un formaggio pastorizzato, perché il trattamento termico banalizza e deprime la complessità aromatica.

Quindi, quando mettiamo in bocca un pezzo di formaggio, facciamo in modo che si liberino le note aromatiche attraverso la frammentazione della pasta e aspettiamo senza deglutire fino a quando cessa l’ultimo segnale aromatico.  A questo punto dovremmo essere in condizioni di ipotizzare il sistema di alimentazione che ha determinato la complessità aromatica di quel formaggio. Siamo quasi pronti per dare un prezzo a quel formaggio ma manca ancora un aspetto importante della qualità: il valore nutrizionale.

I segnali non percepibili della qualità

Il consumatore orienta le sue scelte in parte in base al prezzo e in parte in base al gusto. In questi ultimi anni va aumentando il numero di persone che vorrebbero privilegiare il valore salutistico a quello edonistico. Dico vorrebbero perché al momento la domanda si limita a un formaggio con minor contenuto di grasso. Ma in questo settore le idee sono poche e confuse. Il grasso conferisce al formaggio la cremosità. Un formaggio con poco grasso sarebbe poco gradevole e poi, mediamente, tutti i formaggi hanno lo stesso contenuto di grasso, o meglio, lo stesso rapporto grasso/proteine, a prescindere dal latte di partenza. Se il latte è più grasso, al momento della coagulazione, parte del grasso se ne va nel siero e va ad arricchire la ricotta. Ecco perché una buona ricotta si può fare solo con il siero che deriva da un formaggio prodotto con latte intero. Se invece si parte da latte parzialmente scremato come nel caso dei Grana, la ricotta vale poco. A proposito di questo formaggio, molti dietologi ritengono che sia un formaggio magro. Niente di più falso, e sempre per lo stesso motivo: un buon formaggio, per essere tale, deve avere un rapporto grasso/proteine sempre in equilibrio. E comunque a noi non deve interessare il grasso bensì la sua qualità. Tutti ormai sanno che i grassi si dividono in saturi e insaturi. Nell’etichetta del latte e dei formaggi ora è obbligatorio riportare il rapporto grassi saturi su grasso totale. Si sa anche che, con grande approssimazione, i saturi fanno male mentre gli insaturi fanno bene. Gli insaturi però si ossidano facilmente, quindi se un alimento è ricco di acidi grassi insaturi e se le molecole sono in equilibrio, quell’alimento conterrà anche una quantità sufficiente di antiossidanti per bloccare l’ossidazione degli insaturi. Da cosa dipende il contenuto di acidi insaturi e antiossidanti? Dalle erbe che l’animale mangia. Quindi, più la razione è ricca di erbe diverse e più il latte avrà un alto contenuto di acidi grassi insaturi e di antiossidanti.

Nel corso della degustazione possiamo percepire queste caratteristiche?  Poco, o meglio, solo nel burro, perché questo formaggio ha un altissimo contenuto di grasso (82%). Poiché i grassi insaturi, a parità di temperatura, sono più liquidi dei grassi insaturi- il lardo, ricco di saturi, è solido mentre l’olio, ricco di insaturi, è liquido- un burro prodotto con latte di animali al pascolo e che per questo si presenta molto giallo, sarà anche più morbido di un burro prodotto con latte di animali alla stalla. In questo caso quindi la degustazione di un burro ci potrebbe dare segnali circa la qualità nutrizionale del latte di partenza.

Ma, a prescindere dal colore e dalla struttura, possiamo dire che potremmo anche fare a meno di questi segnali, perché se noi riusciamo a individuare il sistema di alimentazione dell’animale attraverso la degustazione, possiamo risalire anche al suo valore nutrizionale. Perchè se il valore nutrizionale (non percepibile) deriva dalle erbe così come quello aromatico (percepibile), allora una volta individuato e classificato il valore gustativo e aromatico del formaggio, possiamo risalire facilmente al suo valore nutrizionale.

Il formaggio è servito

Possiamo ora dare inizio alla degustazione. Prendiamo un pezzetto di formaggio, ne basta poco e depositiamolo sulla lingua. Rompiamo con i denti la struttura e aspettiamo, possibilmente in piacevole silenzio. Se il formaggio è in equilibrio, possiamo limitarci a misurare la lunghezza e l’intensità dell’aroma. Se invece dovessimo imbatterci in note inattese, che minano quest’equilibrio, come il pungente, l’amaro, il piccante, il metallico, allora dobbiamo fare uno sforzo per individuare bene ciascuna di queste note “fuori onda”, per poter risalire alle cause che le hanno determinate.

Il disequilibrio non ci impedirà comunque di monitorare la lunghezza, la persistenza e l’intensità dell’aroma, perché da questi fattori potremo risalire al sistema di allevamento e alla qualità. Naturalmente ci vorrà molta esperienza, ma importante è sempre il metodo che si utilizza. Se l’aroma cessa subito, ci troviamo di fronte a un latte industriale e pastorizzato; se riscontriamo una certa persistenza, questa sarà dovuta a una maggiore presenza di erba. Molta attenzione dobbiamo dedicare all’evoluzione dell’aroma. Se, nonostante questo sia lungo e persistente, le tonalità non cambiano ma rimangono sempre le stesse, vorrà dire che il pascolo aveva poche erbe e che probabilmente ci troviamo di fronte ad un erbaio, in genere costituito da 2-3 essenze. Può capitare di assaggiare un formaggio prodotto con latte di animali che hanno pascolato su cotiche polifite, con decine di erbe diverse, ma il cui aroma, ancorché intenso, non evolve, non cambia continuamente come ci dovremmo aspettare. In quel caso il latte è stato pastorizzato e la coagulazione è avvenuta con l’aggiunta di fermenti industriali.

A questo punto, se siamo riusciti a leggere i segnali della qualità e a risalire al sistema di allevamento, potremmo già dichiararci soddisfatti. Ma, visto che ci troviamo, soffermiamoci ora sulla struttura, essenzialmente per dare un valore anche alla maestria del casaro. Nelle degustazioni classiche, quando si parla di struttura, si usano termini come: elasticità, granulosità, tenerezza, adesività, ecc. Ora, se noi abbiamo una conoscenza anche storica di quel formaggio, possiamo dire se quel tipo di struttura è in linea con il disciplinare di produzione. E volendo, possiamo anche provare a trovare conferme delle nostre “madelaines”. Meglio però soffermarsi su eventuali anomalie della struttura: gessosità, acidità, amaro, perché la gran parte di esse sono riconducibili alla tecnica.

Il parametro più importante e dirimente resta l’equilibrio. Se nel corso della degustazione le note aromatiche scorrono piacevoli e senza spigolosità, allora saremo sicuri che il casaro ha ben lavorato e che l’alimentazione degli animali è stata equilibrata. Certo, se la razione conteneva poca erba e molti mangimi l’aroma durerà “l’espace” non “d’un matin” ma “d’un second; al contrario se le erbe erano tante, quel piccolo pezzetto avrà soddisfatto la nostra curiosità e avrà preparato il terreno per un grande bicchiere di vino.

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