Angela Di Capua (1), Maria Assunta Acquavia(1), Rosanna Ciriello(1), Filomena Lelario(1), Carmen Tesoro(1), Roberto Rubino (2), Giuliana Bianco(1)
(1)Università degli Studi della Basilicata, Dipartimento di Scienze, via dell’Ateneo Lucano 10, 85100, Potenza, Italy; (2)ANFoSC – Via San Leonardo 62/A, 84131 Salerno, Italy.
Introduction
Raw materials for food manufacturing are often considered similar in the whole agricultural world, as the parameters commonly employed to evaluate their quality are mostly connected to standard guidelines required by law. Among all the different raw materials employed for food production, milk plays an important role as it is considered a sustainable food worldwide. Different factors such as the animal species, farm and feeding conditions, as well as the location where cows are reared, can affect the milk quality as well as dairy products1. Here, an untargeted LC-MS metabolomic approach was applied to investigate the molecular complexity of milk obtained from cows fed under different regimen with the aim to find a correlation between metabolic fingerprint with their food quality.
Methodologies
During spring 2022 and spring 2023, milk samples were collected from different dairy farms located in Basilicata region, Italy. Dairy farms were divided in grazing farms (group A, 23 samples) and indoor farms (group B, 24 samples). 10 mL of each milk sample were
extracted according to the protocol of Zha et al.2 Analysis on the sample extracts were carried out by Zamboni group at the ETH Zurich using a Q-Exactive HF-X Mass Spectrometer (Thermo Fisher Scientific) coupled to a Vanquish Autosampler – HPLC (Thermo Fisher Scientific) and data processed using SLAW approach3. MetaboAnalyst4 and Phyton were used for data visualization and figures.
The untargeted LC-MS metabolomic approach allowed to establish the molecular complexity of milk obtained from cows fedunder different regimen. Preliminary results showed that the different quality of diary products can be related to polyphenols and lipids, mostly present in milk from grazing regimen.
References Results
Unsupervised principal component analysis revealed differences between the two feeding systems, i.e. indoor system cows and grazing regimen (Figure 1). A lower clusterization was observed for the grazing system, thus reflecting the hetereogenity of the feeding conditions (i.e. soil, water, location).
Van Krevelen diagrams were used to visualize the different metabolic classes to whom each identified compound belonged (Figure 2). discriminant metabolites mainly were polyphenols and lipids (Figure 3).
Conclusions
The untargeted LC-MS metabolomic approach allowed to establish the molecular complexity of milk obtained from cows fed under different regimen. Preliminary results showed that the different quality of diary products can be related to polyphenolsand lipids, mostly present in milk from grazing regimen.
Bellassi, P., Rocchetti, G., Nocetti, M., Lucini, L., Masoero, F., & Morelli, L. (2021). Foods, 10(1), 109
Zha, M., Li, K., Zhang, W., Sun, Z., Kwok, L. Y., Menghe, B., & Chen, Y. (2021). LWT, 140, 110759
Delabriere, A., Warmer, P., Brennsteiner, V., & Zamboni, N. (2021). Analytical chemistry, 93(45), 15024-15032
Pang, Z., Chong, J., Li, S. and Xia, J. (2020) Metabolites 10(5) 186 Number of metabolites
Acknowledgements
We thank Prof. Dr. Nicola Zamboni (ETH Zurich) and his group for mass spectrometry analysis. This work is supported by Development and Cohesion Fund (Fondo per lo Sviluppo e la Coesione – FSC),Basilicata Region.
Prendere una toma, vederne il colore impresso che non cede a sbavature, profuma di intenso e un sapore lunghissimo si imprime al palato.
È un’alchimia gastronomica che si realizza solo quando la somma delle parti è in grado di creare qualcosa di più grande.
“Ma ci vuole tempo e pazienza. Io sono del ‘77 di costruzione, ma ogni anno mio vale due perché lavoro 18 ore al giorno” racconta Antonio Lo Quercio titolare del Caseificio Menzapelle a Caselle In Pittari, una ventina di minuti dal vicino mare cilentano di Policastro Bussentino.
È uno di quei luoghi dove tutti si salutano e Nicola Menzapelle e sua moglie Rosa, i suoi genitori, nel paese li conoscono tutti: da ottant’anni su quelle montagne per portare i loro animali al pascolo.
“Per quattrocento anni abbiamo fatto solo questo, coi miei nonni e i miei bisnonni” portando con impegno il proprio territorio tra le righe della qualità dei suoi prodotti “per farlo però non hai tempo per fare altro. La terra e gli animali vanno curati tutti i giorni”.
Un’assenza di un tempo convenzionale che sembra scandire la sua vita da sempre “prima è nato questo lavoro e poi io” e i ricordi arrivano già alla terza elementare “che guardavo 150 capre e 50 pecore”.
Oggi da gestire, Antonio, ha 50 mucche di razza Jersey e 250 capre autoctone cilentane. Con lui in azienda c’è sua moglie Michela e suo fratello Giuseppe, con i loro figli che già danno una mano se c’è né bisogno.
Perché il lavoro è tanto ed è faticoso per tutti “mio fratello sta sempre con gli animali. Le bovine mangiano nel recinto, con le capre, invece, facciamo transumanza”. E tre volte all’anno, a febbraio, a luglio e ad ottobre, Giuseppe è al pascolo con il gregge “adesso sono sul monte Pittari”.
Non esistono né feste né estati e Antonio da quando è nato non ha “mai messo i piedi al mare”, eppure il suo tono di voce continua a farsi allegro “perché se si vogliono fare prodotti buoni bisogna stare attenti all’alimentazione degli animali”.
Da questo sacrificio ne viene fuori quello che lui sa fare meglio, che è il canestrato (tuma), il cacioricotta, il caciocavallo, il caseggio (simile al taleggio) e la ricotta di capra. Si produce tutto nel laboratorio che ha costruito con i suoi risparmi “prima, invece, lavoravamo solo il latte e il sabato vendevamo al mercato del paese”. Oggi invece, spesso, alla cassa c’è sua figlia Rosa. Ed è una punta di orgoglio che si scorge sul suo viso, che dopo i sacrifici di una vita e in assenza di fondi regionali, il suo caseificio sulla strada statale Bussentina 517 è aperto tutti i giorni alla vendita.
Al bancone, però, si trova anche la robiola di capra “che di cilentano ha ben poco, ma piace ai clienti. Ho imparato a farla grazie al professor Rubino” – il presidente dell’Associazione Formaggi Sotto il Cielo (ANFOSC) che con il progetto Nobili Cilentani da anni è impegnato in un dialogo costante con i produttori del territorio.
“Applicare il Metodo Nobile (Me.No.) significa obbligarsi ad ascoltare la natura, a scegliere il momento preciso per avere il meglio, e a volte quel momento ti dice di aspettare” dice Rubino.
Con le parole di Antonio che ne sono la conferma “di questi periodi (giugno) tutti i nostri prodotti sono di colore giallo perché il carotene negli animali è aumentato”. Scamorza, caciocavallo, ma anche la stessa mozzarella si presentano in un colore molto più carico rispetto ai brillanti bianchi ai quali siamo abituati “proprio perché l’erba è fresca ed è ricca di caroteni” Il principale responsabile del trasferimento del colore.
“Questo succede solo da aprile a luglio, man mano che l’erba si secca il colore dei prodotti, invece, inizia a diventare più bianco”.
Riconoscere che il colore, e conseguentemente il gusto, cambi in base alle stagionalità è il primo passo per allontanarsi dalla standardizzazione casearia. Disgregare la convinzione che una mozzarella debba essere sempre bianca, insinuando nelle mente che, invece, la stagionalità e il rispetto della natura non sono monocromatiche. Sono questi i principi portati avanti con il progetto Nobile Cilentano e che diventano risultati in prodotti come quelli di Antonio.
E la sua utopia di fare “cose buone” si spinge e va verso anche la produzione della mozzarella “produciamo tre tipi di mozzarella il fiordilatte, a muzzarella cu a mortedda” – formaggio fresco vaccino a pasta filata realizzato con latte di vacca e conservato in rametti di mirto – “e poi una mozzarella prodotta con la stessa lavorazione della bufala ma con la razza Jersey”.
Il suo latte si avvicina molto a quello della bufala consentendo una produzione molto simile “la faccio solo io in questa zona, perché non c’è molta cultura di questo tipo di mozzarella qui”.
Scommettere su qualcosa di diverso da quanto sempre offerto dal territorio, con tutto il rischio di impresa e la responsabilità che ciò comporta “è il mio modo per non far parte di un processo standardizzato, di diventare pure io un numero o che i miei prodotti possano essere facilmente sostituibili”.
“Ha solo un difetto la mia mozzarella, non usando conservanti va consumata in giornata” continua Antonio – “anche dopo una settimana” ribatte Rubino.
Da poco è partito anche un progetto di riammodernamento del packaging, fortemente voluto dal direttore del Gal Consorzio Casacastra Carmine Farnetano, con etichette e immagini “che sappiano raccontare il nostro linguaggio gastronomico”
Era datato gennaio 2021 la prima domanda presentata al Gal Irpinia Sannio Cilsi da Franco Ciccone dell’Azienda agricola “il Feudo” e da lì a poco il progetto “Nobili cereali” avrebbe iniziato a prendere forma.
Nel gruppo operativo anche l’azienda di Enza Fiordelisi di Calitri e quella di Antonio Marra di Sant’Angelo dei Lombardi, entrambi in provincia di Avellino, mentre la direzione scientifica veniva affidata al CREA-Centro di Ricerca Cerealicoltura e Colture Industriali di Foggia.
Tutti per dimostrare che il Metodo Me.No ideato dall’Associazione Formaggi sotto il cielo (Anfosc), potesse essere virtuoso anche nella produzione delle aziende cerealicole.
“Dieci anni fa nasceva il Latte Nobile, un modello produttivo che basa la sua diversità su una alimentazione degli animali più equilibrata, con più erba di specie diverse e meno concentrati. I consumatori ne hanno riconosciuto la differenza e il Latte Nobile è subito stato apprezzato e richiesto. Ma se l’alimentazione fa la differenza nel latte e nella carne, va da sé che la stessa regola vale anche per i vegetali e per i cereali” – dice Roberto Rubino coordinatore del progetto e presidente di Anfosc.
Che si fa allora per capire da cosa dipende la qualità di un cereale? E per dimostrare che è proprio dalla sua qualità che dipende anche il gusto?
“Volevamo capire anzitutto se esisteva un rapporto di causa-effetto tra la resa per ettaro dei cereali e la loro qualità” , per farlo, allora, sui terreni messi a disposizione dall’azienda Ciccone sono stati seminati due campi di orzo (Hordeum vulgare) ognuno con un differente potenziale produttivo, la semina del farro dicocco (Triticum dicoccum), invece, in quelli di Fiordelisi e il grano duro (Triticum durum) nell’azienda di Marra. A differenziare le terre, però, non solo un diverso impatto produttivo, ma anche una diversa conduzione agronomica, prevedendo l’utilizzo dell’azoto solo sui suoli dove la resa per ettaro era maggiore.
L’ambizione non era da poco: dimostrare come in culture basilari per l’alimentazione umana come i cereali il contenuto dei polifenoli tendessero ad aumentare in condizioni di minore somministrazione di azoto alle colture rispetto alle colture industrializzate.
Ma perché proprio i polifenoli?
“Molta letteratura scientifica sembra confermare che i composti a più alto peso molecolare siano i principali responsabili della persistenza del gusto. Tra questi un ruolo determinante è sicuramente da attribuire ad alcune classi di polifenoli, come i tannini, i flavonoidi e gli acidi fenolici” – osserva Donatella Bianca Maria Ficco responsabile scientifico del CREA di Foggia.
Un dato che troverebbe già un consolidato riscontro in altre tipologie di prodotti “e quindi si è tentato di dimostrarlo su tre specie di cereali, come farro, frumento e orzo”.
Ci sono voluti quasi tre anni di ricerche, esami e degustazioni e anche se si è ancora lontani dal poter dimostrare con certezza che il rapporto gusto/polifenoli sia in grado di incidere sulle caratteristiche organolettiche di questi grani, i risultati preliminari, quale risultanza del progetto concluso, potrebbero far sperare.
“Sugli alimenti provenienti dalle coltivazioni virtuose è stato riscontro un numero superiore di metaboliti come beta carotene, CLA, omega 3, e, soprattutto, di polifenoli” – dice Rubino.
“Il dato più rilevante che è emerso ha riguardato gli acidi fenolici maggiormente presenti nella cariosside di frumento duro” – continua Ficco, ma una maggiore comparazione tra più varietà risulta necessaria per capire “se tali differenze siano riscontrabili anche nei composti fenolici, nel loro profilo, e nei pigmenti carotenoidi”.
In un progetto a latere il CREA ha provato ad andare anche oltre, comparando gruppi di grani antichi e moderni prima in frumento duro e poi nel farro dicocco e nell’orzo, i cui risultati sperimentali (in attesa di validazione su un set più grande di campioni) dimostrano quanto i primi, pur essendo meno produttivi, presentano un contenuto di polifenoli più elevato, la cui incidenza sul gusto è stata, poi, appurata attraverso la trasformazione di alcuni dei grani selezionati in biscotti dal gusto sensibilmente incisivo.
In questi anni molto è stato comunque comunicato, con oltre trenta degustazioni itineranti condotte nel territorio campano, dimostrando che una differenza in termini di gusto esiste.
Lo si è fatto attraverso comparazioni alla cieca, con lo stesso degustatore chiamato ad assaporare, inconsapevolmente, paste o pani prodotti da grani ottenuti da coltivazioni più o meno intensive e arrivando quasi sempre a preferire, in termini di sapore, quel cibo “virtuoso”, con una maggiore presenza di polifenoli.
Viene allora da pensare che aldilà dei risultati scientifici, è, o potrebbe essere, proprio la materia prima il volano della qualità.
Materia allora che quindi non può (e non deve) essere considerata tutta allo stesso modo “e invece la sua borsa merci direbbe il contrario” – con un valore iniziale del grano che è sempre uguale, finendo di pagare lo stesso prezzo a prescindere dal genotipo e dalla sua modalità di coltivazione.
La differenziazione di prezzo voluta dal mercato, la si vede, invece, sugli scaffali, con un’idea di qualità ( e quindi di costo maggiore) incentrata tutta sulle diversa modalità di lavorazione. Eppure a sentir parlare Rubino una trafilatura al bronzo o una pasta a lenta essicazione non è indice di qualità “perché non conferisce né aroma né gusto al cibo”.
Se il mercato invoglia a simili convinzioni il progetto “Nobile cereali” spinge invece all’origine del tutto. Alla materia prima e a una sua produzione meno intensiva. L’unica che, secondo Anfosc, oltre ad incidere sull’aroma (carotenoidi e flavonoidi) e sul gusto (polifenoli) “porta anche ad un aumento del valore nutrizionale”. I dati sono già stati verificati sul latte “il metodo Me.No nel latte migliora il rapporto Omega6/omega3, che scende sotto 4, mentre nei sistemi intensivi è oltre 10; migliora il rapporto grassi saturi/grassi insaturi, che nei sistemi intensivi è circa 70/30, nel ME.NO è 60/40; così come è di gran lunga migliore il GPA -Grado di Protezione Antiossidante- che nel ME.NO è 15, contro 4-5 dei sistemi intensivi”. Che sia vero anche nel grano?
E’ nell’ambito del progetto “Terre di Calabria” che il GAL Terre Locridee ha affidato ad Anfosc, l’associazione Formaggi sotto il cielo, capitanata da Roberto Rubino, l’elaborazione del Disciplinare di produzione del Caprino d’Aspromonte DOP.
Una razza, quella della Capra dell’Aspromonte, mantenuta in vita attraverso la pastorizia transumante. Incontrando ancora oggi lungo i sentieri boschivi le sue tracce fatte di resti di capanne di pastori, di recinti per animali o di strutture fatiscenti probabilmente usate per la maturazione del formaggio.
Di quel “formaggio fatto col sistema locale che è pochissimo cotto, anzi bisogna dire ch’è crudo interamente perché si dà alla pasta per qualche minuto un leggiero colore che non arriva a 30 gradi -vampata”. Era così che sul finire degli anni ‘20 del ventesimo secolo Morabito descriveva quello che sembrava a tutti gli effetti il Caprino d’Aspromonte.
Quella transumanza, però, oggi sembra muoversi, invece, per emigrazione, e quelle colline arcigne e tortuose abitate dall’uomo e dai suoi bestiami senza soluzione di continuità appaiono oggi delle lande deserte.
Il rischio è di perdere l’ennesimo patrimonio gastronomico da custodire, invece, coi denti. Ma con “Terre di Calabria” si apre la possibilità di suscitare nuova consapevolezza e orgoglio.
“Un esigenza che è nata dal basso con gli stessi pastori che vogliono valorizzare il loro mestiere e il loro prodotto. Da qui la necessità di stabilire delle regole. Bisogna avere una visione di insieme e una buona strada è sempre quella di ricorrere all’etica delle azioni” dice Pietro Schirripa da anni impegnato nella rivalutazione del territorio.
Ecco perché il Disciplinare, nelle more della sua pubblicazione, non si limita solo a segnare i confini geografici di quest’eticità stabilendo che la produzione del Caprino Dop debba avvenire solo nel territorio della provincia di Reggio Calabria e affidando la “prova dell’origine” agli stessi produttori, trasformatori o confezionatori che saranno chiamati ad inviare mensilmente al consorzio una tabella dei dati relativi alla produzione – ma stabilisce anche una minuziosa metodologia di produzione.
Così quel formaggio, realizzato solo da ottobre a luglio, può essere prodotto unicamente dal latte intero crudo di capre autoctone dell’Aspromonte.
Un bestiame che, nelle regole del nuovo disciplinare stilato da Anfosc, dovrà essere al pascolo, avendo a disposizione una varietà di erbai provenienti per almeno il 70% dall’area della Calabria. Divieto assoluto, invece, per insilati o fasciati, ammettendo, poi, solo un 30% di alimenti complementari come grani, cereali, concentrati e trebbie se gli animali sono alla stalla, e che scende, poi, a 300 kg per capo annuo in caso di pascolamento.
“Abbiamo effettuato le analisi chimiche e organolettiche partendo da alcuni campioni di formaggi per esaminare principalmente il contenuto dei polifenoli. E’ partendo da loro che ci è possibile dimostrare l’alimentazione degli animali. Maggiore il loro contenuto maggiore la quantità di erbe mangiate dal bestiame”.
Una prova che diviene, poi, tangibile anche senza telescopio, con forme di formaggio dal colore “no bianco” e dal sapore intenso e persistente.
Questi risultati sono stati presentati nella giornata del 22 aprile presso l’Istituto alberghiero di Locri in un incontro durante il quale gli alunni sono stati chiamati a degustare alla cieca formaggi prodotti secondo il nuovo disciplinare e altri di diversa provenienza. “Il fine è sensibilizzarli sui prodotti agroalimentari del nostro territorio e in particolare sulla necessità di tutelarli attraverso l’elaborazione di disciplinari di produzione” conclude Schirripa.
I ricercatori Patrizia Spigno e Roberto Rubino spiegano cosa c’è che non va nei prodotti dell’industria alimentare: ci propinano un gusto che non esiste
di Assunta Casiello
Era il 1868. Francesco Cirio inondò l’Italia e l’Europa con i suoi pomodori. E proprio noi italiani, con la nostra penisola al centro del Mediterraneo, luogo di scambi per eccellenza, lo abbiamo condito in tutte le salse.
Diventato così tanto nazional popolare che la carica culturale che si porta appresso renderebbe inimmaginabile una storia italiana senza lui. Dovremmo fare a meno di lasagne alla bolognese, panzanella, pizza al pomodoro, finanche al pantone rosso della nostra bandiera italiana. Come ci siamo arrivati dal virtuosismo di Cirio ai tubetti di concentrato di pomodoro che ci ritroviamo nelle dispense? Esiste un periodo ben preciso che fa da spartiacque. Sul finire degli anni ’50 e per tutto il decennio successivo l’Italia cambiava pelle: da un’economia rurale si passava a una potenza industriale con i venti americani che arrivarono nei nostri supermercati.
Forma e sostanza anche per il lavoro femminile e i tempi da dedicare alla cucina erano sempre più ristretti. Le soluzioni “salva tempo” erano diventate anche i “salva cena”. E a furia di precotti, preconfezionati e varianti abbiamo perso anche il vero gusto del pomodoro. Questa insofferenza verso l’omologazione ha portato Patrizia Spigno – agronoma, ricercatrice e oggi al centro della Cooperativa Arca 2010 – ad ispirare la produzione della Dop dei pomodori San Marzano. “Per anni ho tutelato e conservato moltissime varietà vegetali che stavano scomparendo in Campania”.
E oggi grazie al lavoro della Spigno sono trentadue le varietà di San Marzano recuperate attraverso un progetto della Regione Campania che ha visto il suo culmine nella creazione di una Banca del Germoplasma del San Marzano: “Il pomodoro non è una macchia rossa sempre uguale, ognuno ha una sua storia e una sua catena organolettica”. Eppure il palato del comune consumatore non sa distinguere neppure un San Marzano dal Pachino: “E’ è la grande distribuzione che ha appiattito i palati, creando dei parametri che non esistono. E soprattutto un gusto che non esiste”.
A non esistere è la sovrabbondanza di dolce che strenuamente vogliamo affibbiare ad un pomodoro “ecco perché ci ostiniamo a mettere addirittura il cucchiaino di zucchero nelle nostre salse”. Quel cucchiaino che talora viene suggerito anche nelle ricette culinarie dei grandi chef e “a furia di metterlo ce lo siamo dimenticati che il pomodoro è, invece, principalmente acido”.
La scienza che ci aiuta
E’ necessario allora un cortocircuito in grado di far vibrare nuovamente la scena alimentare attraverso una visione alternativa, quella che mostra la realtà in una versione nuda. Ed è la stessa visione che si sovrappone perfettamente alle teorie di Roberto Rubino, ricercatore e Presidente dell’Associazione nazionale formaggi sotto il cielo (Anfosc): “Produrre meno per produrre meglio”.
Per ritrovare il sapore dei frutti, Rubino ci spinge a riscoprire il sapore della terra: “E’ la variabile più assoluta dalla quale dipende il sapore di un cibo”. Rossi sbiaditi e forme imperfette “rappresentano l’indice di un allevamento non intensivo” mentre il lento rilascio del sapore “dovuto alla presenza, più o meno maggiore dei metaboliti”: è l’indizio per quantificare la resa per ettaro di quel frutto. “Le rese basse favoriscono, infatti, la salubrità dei terreni e a rese minori aumenta anche il numero e la massa dei metaboliti”. I recenti studi di Anfosc hanno dimostrato, infatti, che “le papille sensoriali vengono stimolate, più o meno a lungo, proprio dai metaboliti, cioè le molecole responsabili quando si parla di gusto e della sua persistenza”.
Il sottocosto
Va da sé che tutto questo processo non potrà mai avere gli stessi costi di quello industriale. “E non è solo il rispetto della terra e dei suoi cicli che ha un costo, ma è anche il rispetto di chi lavora quelle terre e della loro vita”, dice Patrizia Spigno. Così all’aberrazione semantica del sottocosto “bisognerebbe sapere che dietro quella reclame pubblicitaria c’è qualcuno che in quel momento sta perdendo qualcosa, e quel qualcuno è quasi sempre il contadino. L’unico che guadagna in questa negazione della qualità è solo il distributore”. Il cibo deve avere un valore, questa è l’unica soluzione percorribile. E allora torniamo alle domande basilari alle quali l’industria alimentare ci ha lentamente e insidiosamente disabituato a rispondere: “Che cos’è, da dove proviene, come e chi lo fa”.
Lavorare meno, lavorare tutti. Una volta era lo slogan della sinistra extraparlamentare.
Con gli anni, poi, diversi Paesi hanno cominciato a sperimentare
questa strada – e non si tratta di regimi comunisti! – e ora lo stesso tema
del digital e dell’Intelligenza Artificiale pone con forza la necessità di lavorare
meno tendendo – questa la sfida – a lavorare tutti (o almeno il più possibile).
Lo stesso dilemma, anche con aspetti in parte differenti, si pone nel mondo
della produzione. Parliamo in particolare della produzione agricola in cui la
concorrenza tra Paesi con standard lavorativi avanzati pagano la concorrenza
con quelli in cui gli standard e le garanzie sia per i lavoratori che per
l’ambiente sono assolutamente molto, molto meno stringenti.
Le battaglie degli agricoltori per il prezzo del latte hanno preceduto quelle
per il prezzo della farina, della frutta e della verdura. Le richieste degli
imprenditori scuotono – lo vediamo ogni giorno – il mondo della politica
nazionale e globale. I raccolti vengono pagati spesso meno di quanto
costi produrli, per poi trovarli sugli scaffali della grande distribuzione a costi
moltiplicati per i consumatori. In Francia – lo abbiamo riportato pochi giorni
fa anche sul nostro sito – vengono estirpati i vigneti per avere una minore
produzione e per tentare di tenere i prezzi più alti. Da noi, invece, mentre i
trattori marciano su Roma e su Bruxelles, ci sono “sindacati” dei produttori
che rivendicano la necessità e il dovere di poter produrre di più per garantire
l’autosufficienza alimentare. Come se il problema del mercato (e del
business) del cibo fosse una questione chiusa nei confini nazionali.
Già da tempo il mondo della moda, che ai mercati e alle sfide globali
è molto più sensibile rispetto a quello degli imprenditori agricoli, si sta
ponendo il tema: produrre meno, produrre meglio. Si tratta di analizzare sia
cosa produrre che come farlo. La riflessione attraversa sia i campi della
sostenibilità che della “qualità” (concetto quest’ultimo che risponde a criteri
mutevoli in base alle diverse situazioni sociopolitiche di un Paese): due
campi che sempre più si intersecano.
Roberto Rubino, ex dirigente e ricercatore del Centro di ricerca alimenti e
nutrizione nonché ideatore del Latte Nobile e grande autorità nel campo
della caseificazione, ha più volte lanciato la provocazione: produrre meno,
produrre meglio. Un concetto che si basa sulle classiche leggi di mercato
della domanda e dell’offerta. Più qualità e più possibilità di scelta da
parte dei consumatori in base a prezzi che si differenzino sulla qualità. Un
formaggio di pascolo o da mucche alimentate a erba o fieno deve costare
di più di uno da latte di mucche nutrite a insilati. Concetto semplice. Il punto
è che si dovrebbe muovere anche la politica: puntare su standard e certificazioni,
dire al mondo perché sarebbe meglio comprare italiano e non solo
in base al nazionalismo alimentare. A fronte di ciò, i produttori dovrebbero
avere una voce più chiara e consapevole: non si risolve il problema con
più pesticidi, ma con più qualità.
Siamo al sesto posto in Europa, dopo Francia, Regno Unito, Germania, Svizzera e Olanda, per numero di birrifici e al nono per volume di produzione, con diciassette milioni di ettolitri prodotti nel solo 2021. (Report 2022 “Birra artigianale, filiera e mercati” di Unionbirrai).
Ma questi dati sono direttamente proporzionali anche alla qualità?
Chiara, rossa, doppio malto, d’abbazia, artigianale…. quali sono gli assi cartesiani per stabilire da cosa dipenda la loro qualità? Dalla schiuma? Dal colore? Dall’aroma?
Secondo l’Associazione Nazionale Formaggi sotto il cielo (Anfosc) dipende principalmente dalla materia prima.
Se, infatti, acqua, malto d’orzo, luppolo e lievito sono gli ingredienti necessari per una birra, questi non sono, però, sempre uguali e non da tutti, allora, ci si potrà aspettare la produzione di una birra di qualità.
Eppure ciò nonostante la borsa merci tende ad uniformare i prezzi di queste materie prime, e così facendo induce a ritenere che anche la qualità sia uniforme. Ma è proprio così?
Il Metodo Me.No ideato dall’Associazione, amplia allora il suo raggio d’azione direzionandosi ora anche sul mondo brassifero. E dopo latte, pasta, pane, formaggi e carni, la reclame del Metodo “produrre meno per produrre meglio“ è tutta puntata sulla birra.
I numeri della birra in Italia
Attualmente in Italia l’orzo, il cereale base per la produzione brassifera, occupa una superficie coltivata superiore a 350.000 ettari per una produzione di poco inferiore a 1,5 milioni di tonnellate. Di queste, però, solo il 10-15% è destinato all’industria del malto. Eppure il dato che più fa preoccupare riguarda le rese unitarie: cresciute fino a 5-6 tonnellate ad ettaro.
Se a tutto ciò aggiungiamo che per diverse tipologie di birra, come la Blanche o la Saison, è prevista, poi anche l’aggiunta di grano – che ben può arrivare fino al 50% in equilibrio con l’orzo maltato – il dato allora diventa ancor più allarmante.
A un mercato dell’orzo già in sovraproduzione, infatti, non da meno è, poi, quello del grano. Nel solo 2023, si è stimato, che le rese abbiano subito un’oscillazione da 40 a 90 quintali per ettaro.
“Semine troppo fitte impediscono alla coltura di sfruttare al meglio le risorse, con la conseguente realizzazione di prodotti poveri di sostanze e scarsamente qualitativi” – osserva Alfonso del Forno Presidente del Consorzio Metodo Me.No ed esperto degustatore di birre.
La prova
Per lasciare poco spazio alle parole, Anfosc ha deciso di fornire una prova dei fatti. Al birrificio “Serrocroce” di Monteverde, in provincia di Avellino, sono stati così forniti due grani di una stessa famiglia, ma prodotti con rese differenti. Uno la cui resa era di 50 quintali per ettaro e l’altro con una resa, invece, di 20.
Così nella giornata dedicata al Metodo Me.No, venerdì 24 febbraio nella sede di Città della Scienza a Napoli, si è tenuto un confronto alla cieca tra le due birre realizzate con lo stesso metodo di produzione. Significative sono state le differenze in termini di degustazione a vantaggio della seconda. Un olfatto più incisivo con “intense e complesse note di malto e esteri da lievito, in un finale che rimanda a sentori speziati” – come si legge nelle note di degustazione di Del Forno.
“Ma anche il gusto era sensibilmente differente, mentre la prima birra presentava un’apertura dolce e un finale leggermente amaricante, con poca struttura nel suo complesso, la seconda, invece, pur equiparandosi alla prima in un’apertura pacata e morbida chiudeva in un finale di buona freschezza e in un retrogusto lungo che lasciava spazio a note speziate”.
La spiegazione, dalla ricerche condotte da Anfosc, è tutta da rinvenire nei polifenoli contenuti nel grano. Sarebbero, infatti, queste le molecole principali dalle quali dipende la persistenza e l’intensità del gusto, ma anche una maggiore complessità aromatica.
Come fare allora per avere un numero almeno sufficiente di queste molecole nel grano per assicurarsi di bere una birra con gusto? “Produrre meno”.
Nobile. E ’un ideale alto, una causa in grado di unire e cristallizzare il suo intento tra tutti coloro che ci roteano attorno.
Nobile allora come il latte promosso e commercializzato da “La Compagnia della qualità” col pregio di essere riuscita a far gravitare attorno a sé tutte le eccellenze lattiero casearie italiane che seguono il rigido disciplinare di produzione “Me.No” (Metodo Nobile) stilato dall’Associazione Nazionale Formaggi sotto il Cilelo (Anfosc).
“Sapere da dove proviene il latte originario e quale alimentazione ricevono gli animali, è da qui che si scrivono le prime righe di questo disciplinare”– osserva Michele Pizza Presidente de La Compagnia della Qualità che da oltre dieci anni acquista materie prime unicamente delle aziende riunite nel Consorzio Me.No. per realizzare i propri prodotti finiti.
“Attualmente sono circa una ventina le aziende del Consorzio distribuite in tutta Italia e la nostra Compagnia assorbe tutto il latte delle consorziate campane. Viaggiamo su una quota di circa sei, settecentomila litri annui”.
Sono piccole produzioni che dall’Alto Beneventano arrivano sino all’inizio della provincia di Campobasso. Una filiera corta e ben tracciata che dai centri di raccolta arriva poi sino alla sede produttiva della Compagnia situata ad Agerola, in provincia di Napoli “per essere trasformata in latte Nobile, yogurt, burro, panna e formaggi”.
La loro è un’idea molto distante dal “solo” concetto di latte di alta qualità, la cui dicitura, a volte, diventa solo un gioco di percentuali da rispettare e che per la legge italiana (L. 169/89 e D. M. 185/91) equivale a una proporzione perfetta con un non meno di 3,6% di grassi e 3,2% di proteine, un numero di cellule somatiche inferiori a 300.000 su ml di latte e una carica batterica inferiore a 100.000 germi per ml di latte. Numeri che da soli sembrerebbero non dire molto sulla filiere “quello del Latte Nobile è, invece, definito dal metodo di allevamento delle mucche e dalla loro alimentazione”.
Il viaggio del latte, allora, non sempre è uguale e “la produzione dei consorziati dipende da diversi fattori tra cui la razza delle mucche, la loro alimentazione, le pratiche di gestione del bestiame e le tecniche di lavorazione del latte”.
“Le mucche destinate alla produzione di latte Nobile (Frisona, Bruna Alpina e Pezzata Rossa),vengono alimentate con una dieta bilanciata e di alta qualità. Questo può includere erba fresca, fieno, cereali, e altri alimenti specificamente formulati per fornire loro tutti i nutrienti necessari per la produzione di un latte appunto Nobile . Ogni consorziato deve assicurare, secondo la proporzione stabilita dal Disciplinare, che almeno il 70% della razione quotidiana sia a base di questi alimenti”.
Inutile dire che è escluso completamente l’uso di insilati e fasciati.
La garanzia di latte di qualità è, allora, strettamente connessa con l’alimentazione che ricevono gli animali.
“Mediamente una mucca da Metodo Nobile produce al massimo 18 litri di latte al giorno” . Numeri ben lontani da quelli di un sistema intensivo che possono arrivare, invece, fino a 60 litri al giorno.
Il disciplinare Me.No va, poi, oltre e impone all’allevatore e al trasformatore anche di tenere a bada il rapporto Omega6/Omega3, ovverosia di grassi saturi e insaturi, che diventano, così, a cascata le ulteriori regole da rispettare.
Ma tutto questo in che modo può essere percepito dal consumatore? “attraverso il gusto. Che si fa più intenso, con una spiccata ricchezza aromatica e soprattutto dalla maggiore persistenza”.
Da un punto di vista scientifico la spiegazione trova la sua ragione in una molecola ben precisa, da anni al centro degli studi di Anfosc. Sono i polifenoli. Le ricerche condotte dall’Associazione hanno, infatti, dimostrato che la loro presenza, più o meno numerosa, dipenda dall’alimentazione dell’animale. E dal loro numero dipende anche il gusto, più o meno, persistente del prodotto realizzato.
Il Latte Nobile esempio virtuoso
In tempi di omologazione alimentare non è facile rivoluzionare concetti e preconcetti insiti o impartiti dal mercato, eppure il Latte Nobile sembra esserci riuscito. Il sintomo di chi crede nell’eticità e il segno che qualcosa possa cambiare arriva anche con un prezzo al litro decisamente “fuori dal mercato”. Da 1,50€ che si incontra mediamente nei banco frigo dei supermercati si sfiorano anche i 3 € per un litro di Latte Nobile. Eppure queste oscillazioni non preoccupano. “Il consumatore ha iniziato ad apprezzare le differenze, sino al punto di amarle. Il Latte Nobile ha guadagnato riconoscibilità sul mercato, riuscendo anche a superare anche queste differenze di prezzo, che equivalgono a differenze qualitative”.
Young female choosing dairy products in supermarket
Perché, oggettivamente la qualità, ha un costo e per la produzione di un latte prodotto secondo il metodo Me.No. bisogna tener conto non solo degli oneri di trasporto sino ad Agerola o dei prezzi delle confezioni “rigorosamente in vetro”, ma soprattutto della qualità dell’alimentazione, che necessariamente ha un valore diverso da quello degli insilati o fasciati. “Attualmente il prezzo del fieno è superiore a 0,60 € al kilo e i produttori del Consorzio Me.No. devono assicurare, da Disciplinare almeno una quota del 70% nell’alimentazione dell’animale”.
Il latte Nobile sembra allora essere diventato uno dei pochi casi in grado di superare il savoir faire del volantino pubblicitario. E ciò lascia un concreto spazio per ripensare a un reale mutamento culturale nelle menti del consumatore, oltre che a un ripensamento sulle imposizioni di vendita alle quali i piccoli allevatori sono costretti a sottostare.
Secondo uno studio dell’International Milk Price Review, commissionato dal sindacato di categoria olandese LTO e dall’Associazione europea dei produttori di latte (European Dairy Farmers) il prezzo del latte fresco pastorizzato intero alta qualità di marca che viene pagato agli allevatori è meno di 0,35 € “Il nostro si aggira tra i 60 e i 65 centesimi al litro perché a una miglioria culturale e alimentare deve seguirne anche un ritorno economico per l’allevatore “.
L’eticità però non sta solo in un raddoppio di prezzo, ma anche e soprattutto in una sicurezza per le loro famiglie “per noi è importante assicurare contratti continuativi con le piccole realtà con le quali lavoriamo. Acquistiamo unicamente da loro, ma soprattutto acquistiamo sempre l’intera loro produzione” . Non così scontato, invece, per gli allevatori che vendono alle grandi catene del latte che spesso si ritrovano con barili di latte invenduti.
Tutto questo ripaga solo eticamente e culturalmente? No. E uno sbocco commerciale sembra viaggiare in parallelo “ad oggi con oltre 100 e più esercizi commerciali la rete di distribuzione e commercializzazione è ramificata in tutta la Regione Campania e si appresta con fare lento, ma continuo anche nella Grande Distribuzione”.
“C’è ancora tanto spazio per migliorarci e sul tavolo molti i progetti. A partire da nuove consorziate nel Consorzio Me.No., a più accordi commerciali con La Compagnia del Latte non solo per prodotti caseari, ma anche per altri alimenti le cui materie prime siamo prodotte sempre attraverso il metodo ideato da Anfosc”.
Il grande problema dell’agroalimentare è il prezzo unico delle materie prime. Se il prezzo del latte è unico, come quello del grano, il livello qualitativo sarà simile. L’effetto di questo modello è che noi non conosciamo le cause che influiscono sul livello qualitativo e, quindi, sia il produttore e sia il consumatore sono disarmati, non hanno le parole chiavi per decidere il livello da produrre o da acquistare.
Dieci anni fa nasce il Latte Nobile, un modello produttivo che basa la sua diversità su una alimentazione degli animali più equilibrata, con più erba di specie diverse e meno concentrati. I consumatori ne riconoscono la differenza e il Latte Nobile è subito stato apprezzato e richiesto. Ma se l’alimentazione fa la differenza nel latte e nella carne, va da sé che la stessa regola vale anche per i vegetali: la nutrizione della pianta determina un aumento del livello qualitativo. In pratica l’abbassamento delle rese per ettaro permette un aumento nel numero e nel contenuto dei metaboliti presenti nei vegetali.
Ecco che allora il Modello Latte Nobile diventa Metodo Nobile(Me.No) e viene predisposto un disciplinare specifico per ciascun prodotto.
Contemporaneamente in Italia e in Messico sono stati attivati numerosi progetti di ricerca per studiare e verificare gli effetti di una nutrizione più equilibrata sulla qualità del prodotto. E i primi importanti risultati sono già disponibili.
Ne parleremo a Città della Scienza in una giornata che vedrà coinvolti ricercatori, produttori e consumatori e, naturalmente, i prodotti.
Programma
Ore 12.30- 13.30 Laboratorio aperto a tutti: impariamo a degustare condotto da Alfonso del Forno.
Verranno fatti degustare alla cieca: latte, yogurt, mozzarella e formaggi prodotti con metodo tradizionale e Metodo Nobile. In questo modo i ragazzi potranno cogliere le differenze sapendo però da cosa dipendono, quali fattori le hanno determinate
Ore 14.00-15.00 Come si racconta il Metodo Nobile. Rivolto ai venditori dei prodotti con marchio Meno, condotto da Roberto Rubino
Qualsiasi prodotto va raccontato con parole chiavi specifiche. Il Metodo Nobile è frutto di un approccio scientifico innovativo che però conduce a risultati misurabili e di grande interesse. Tutto questo va raccontato agli acquirenti, ai consumatori con parole adeguate e precise.
Ore 16,00 coordina:
M.Passari,Dirigente direzione generale PAAF
INTERVENTI
R.Rubino, Presidente Anfosc: le ragioni del Metodo Nobile e le prospettive future della ricerca
R.Tudisco, P.Iommelli, F.Infascelli,Università di Napoli: Il latte Nobile: stress ossidativo, microbioma e impatto ambientale
A.Balivo, R.Sacchi, N.Del Gaudio, A.Genovese Università di Napoli: Proprietà Sensoriali e Nutrizionali di Latte e Formaggi Nobili
A.Capece,Gabriella Siesto Università di Basilicata: Il prato e le api in vigna e il recupero del Lambiccato
M.Petriccione, Crea Caserta: Le mele e l’effetto del Metodo Nobile sui polifenoli.
D.Ficco, Crea Foggia, Effetto della resa per ettaro del grano duro sul contenuto dei polifenoli Polifenoli e sistema di produzione nel grano duro
M.E.Furfaro, Corfilcarni, Messina: latte, carne, grano e foraggi in Sicilia
M.Galina, Università Città del Messico: Il latte Nobile in Messico e i risultati delle ricerche. (In videoconferenza)
V.Speranza, Presidente CM Bussento Lambro e Mingardo: L’importanza della rete pubblica nella sperimentazione del metodo nobile.
E il Gal Irpinia Sannio Cisli segna un altro tiro in porta con “NobiLapio”. Un progetto virtuoso sul nobile lavoro svolto dalle api. Perché se esistesse un numero primo in agricoltura quello sarebbe proprio di questi insetti impollinatori, da sempre definiti come operosi che col loro lavoro producono, creano e trasformano, restituendo alla terra nuovi stimoli produttivi.
Protagonisti di NobiLapio sono però, in uno, anche i vigneti situati in Irpinia, a Lapio, uno degli areali più estesi per la produzione del Fiano di Avellino e ricadente in parte anche in quello del Taurasi Docg , all’interno dell’azienda agricola di Angelo Silano.
L’attenzione alla sostenibilità e alla tutela ambientale di questo giovane agronomo si sono collocati da subito come perno centrale nella buona riuscita del progetto. A lui, infatti, il compito, sotto la direzione scientifica dell’associazione Anfosc, di gestire con nuove tecniche di coltivazione i propri vigneti già condotti in regime biologico.
“Sono partito anzitutto da un utilizzo ragionato e limitante, dei trattamenti fitosanitari ed agronomici tra cui propoli e estratti di lieviti” – osserva Silano che dal 2011, dopo essersi specializzato in Veneto e in Francia, ha deciso di gestire i dodici ettari familiari in accordo con le regole della natura.
Si continua, poi, con la semina dei vigneti in autunno “con inerbimenti melliferi, attrattivi per le api ” e nel mentre si controllano le 200 arnie posizionate a ridosso dei filari: “abbiamo insediato le api dell’azienda capofila Mattei anch’essa partner del progetto NobilLapio” e la sinergia è sembrata quasi immediata: “i vigneti si sono ripopolati di insetti impollinatori, i fiori aumentati e al contrario abbiamo notato una diminuzione delle patologie che affliggono acini e vitigni”.
“Le api mellifere, infatti, sono anche in grado di risanare gli acini danneggiati, magari beccati da un uccello o colti dalla malattia dell’oidio. L’ape succhiando il succo zuccherino fuoriuscito sanifica l’acino perché, eliminando il substrato dove si sviluppano i batteri, evita il proliferare di marciume” dice Silano.
Ma queste piccole operaie hanno anche un’altra funzione: “Lo stomaco delle api, così come le loro zampette, trasportano lieviti che finiscono nel polline e anche sugli acini. Ed è partendo da questi lieviti che abbiano deciso di farci un vino”.
La conferma dall’università degli Studi della Basilicata
“Un ruolo importante svolto dalle api in vigneto è quello di fungere da vettori di lieviti. Dati risalenti a diversi anni fa hanno dimostrato che le cellule di lievito non sono in grado di disperdersi da sole, ma sono gli insetti, comprese le api, a fungere da vettori di questi microrganismi” – afferma Angela Capece docente di Microbiologia Agraria all’Università degli Studi della Basilicata. Il gruppo di studi capitanato dalla professore Capace ha condotto prove sperimentali per un biennio ( 2021-2022) sui vigneti dell’azienda Silano e sulle arnie dell’apicoltura Mattei “ abbiamo riscontrato che la permanenza degli apiari nei vigneti per due anni consecutivi ha aumentato la presenza dei lieviti di interesse enologico rispetto alle altre specie. I nostri risultati sembrano, infatti, confermare il ruolo delle api come vettori responsabili della dispersione dei lieviti fermentativi nel vigneto. Inoltre nel secondo anno è stato possibile osservare come questo particolare ceppo di lieviti fosse addirittura presenti nello stomaco delle api stesse”.
Dalle api al lambiccato: il ritorno della tradizione
Con il supporto di Anfosc Silano ha, così, iniziato a fare dei tentativi, selezionando direttamente dal polline alcuni lieviti da utilizzare per la sua cantina. E nel 2021, ha prodotto la prima bottiglia di Lambiccato. “Utilizzare lieviti selezionati standardizza gli aromi del vino, quello che volevo era, invece, restituire un’immagine autentica di un vino del passato ormai dimenticato”.
E dice bene Silano, perché il Lambiccato, tra le nuove esigenze e i gusti del mercato, si era ormai perso nell’oblio della memoria. Solo i vecchi del paese ne avevano un vago ricordo. Era lo spumante delle feste. Di quel vino la cui uva, una volta raccolta, rimaneva dormiente in cantina fino a quando il suo raspo verde non si colorava di marrone. A quel punto si pressava. Ed è da qui che iniziava il cerimoniale della lambiccatura: il mosto veniva filtrato nei “cappucci” (stracci di cotone, detti lambicchi), che goccia dopo goccia purificavano il liquido. Passaggi ripetuti di questa operazione lo depuravano dalle sue sostanze fosfatiche e azotate, assicurandosi al tempo stesso che i lieviti non avessero più nulla da mangiare e in questo modo evitando che qualsiasi fermentazione potesse partire.
L’uso massiccio di lieviti selezionati nell’enologia moderna ha fatto, però, perdere qualsiasi traccia di questo vino “hanno un alto potere alcoligeno, con quella capacità di produrre alcol in presenza di zucchero, a differenza dei lieviti indigeni che in presenza di un certo quantitativo di alcol nel mosto tendono, invece, a morire; quindi utilizzando i primi le bottiglie di Lambiccato tendevano tutte ad esplodere, proprio perché l’azione dei lieviti, non arrestandosi mai al suo interno, tendeva a raggiungere livelli di pressione eccessivi”. Era diventata impossibile la sua produzione vista anche l’assenza totale di lieviti naturali in vigna. “Con il progetto NobiLapio e il ritorno delle api nei vigneti siamo stati in grado di riportarli e con essi a produrre nuovamente il nostro Lambiccato”.
La nascita di un Disciplinare di produzione secondo il “Metodo Nobile”
Riportare questo vino in auge è come riportare nuova memoria culturale ad un territorio. Ed è per questo che si mira alla realizzazione di un vero e proprio Disciplinare di produzione che riscriva le regole della viticoltura partendo da pratiche ragionate in vigna. “Si tratta del cosiddetto “Metodo Nobile”1 messo in atto dal Dott. Rubino. Applicarlo in vigna significa creare un valore aggiunto alle produzioni aziendali e alla riproduzione di un prodotto tradizionale come il Lambiccato”.