Stefano Polacchi, con il suo articolo: Agricoltura o agroindustria: quale è l’idea di made in Italy di questo governo? ha lanciato, in uno stagno più che immobile, la classica pietra. Non so se e quanti cerchi concentrici partiranno dal punto in cui è caduta ma vorrei cogliere la palla al balzo per aggiungere un mio pensiero. Stefano chiede alla politica di occuparsi “anche” dell’agricoltura, visto che il vino, i formaggi i prodotti trasformati si fanno nel campo, sulla terra. Indubbiamente la classe politica deve essere lungimirante, deve saper guardare oltre la siepe, ma di questi tempi è impresa ardua. E poi, non solo la politica agricola è gestita dalla UE ma, in Italia, dal dopoguerra, è la Coldiretti che domina le scene.
Ma, ammesso e non concesso che la politica possa fare qualcosa, a questo punto sono lecite almeno due domande: cosa fare per l’agricoltura e, ancor prima, quali protagonisti della filiera la pensano diversamente dalla politica? E cioè, che l’agricoltura dovrebbe venire prima dell’agroindustria? Sulla prima domanda mi riservo di scrivere nel prossimo articolo, sulla seconda, provo a passare in rassegna i vari attori della filiera per vedere se c’è qualche speranza.
Partiamo dalla realtà o, meglio, da una lettura della realtà. Il prezzo di ogni materia prima è unico ed è deciso da una borsa merci. Facciamo l’esempio del grano. Oggi il prezzo è sotto i 40 cent/kg. Ma il grano è tutto uguale? Secondo Coldiretti il grano non lo è, tanto che quello italiano è migliore di tutti. Però la Coldiretti è la prima a pretendere che il prezzo sia unico per tutti. Quindi il grano italiano è migliore, però l’industria paga un prezzo più elevato per il grano dell’Arizona perché ha un contenuto proteico altissimo. Ma tutto il grano italiano è uguale, oltre che il migliore? Ovvio che no, a questi miracoli crede solo la Coldiretti. E se è diverso, di quanto è diverso e poi, quali fattori determinano questa diversità e, infine, se volessimo misurare questa diversità quali analisi facciamo? Nulla di tutto questo è dato sapere, perché l’unico parametro di cui si tiene conto è la proteina.
E vediamo ora il comportamento dei protagonisti della filiera.
L’industria, ovviamente, preferisce e predilige la tecnica di produzione: pasta trafilata in bronzo, essicata lentamente. Domande: ma perché il prezzo di questo tipo di pasta è molto diverso se la tecnica, che dovrebbe fare la differenza è la stessa? Quindi il prezzo della pasta non è legato al suo livello qualitativo. Tanto che in questi giorni molte aziende fanno pubblicità magnificando la forma della pasta: è buona perché permette di agganciare il sugo. Il paese della pasta che vanta il suo prodotto perché permette di raccogliere il condimento! Ma l’industria fa il suo mestiere. Così come lo fanno i fornai, perché il pane è: cotto a legna e lievito madre. Nessuno parla mai di grano. Anzi no, c’è il grano Cappelli! Solita domanda: tutto il grano Cappelli è uguale? Non credo. E se è diverso perché e comunque rimane il fatto che il prezzo è unico, anche se è più alto. Insomma, l’approccio è sempre lo stesso. All’industria non interessa la materia prima. E lo stesso vale per il latte, la carne, ecc.
L’altro protagonista è la ricerca. Se noi ci mettiamo su Scolar Google, il motore di ricerca che ci permette di prendere visione di tutte le ricerche che si fanno nel mondo, possiamo vedere che la stragrande maggioranza dei ricercatori si dedica o alla genetica, alle varietà o alle tecniche di molitura del grano. Quando si parla di qualità, si fa riferimento sempre o ad una qualità tecnologica, che permette di lavorare bene l’impasto, o al valore nutrizionale del grano, soprattutto alla presenza di antiossidanti. Del valore aromatico si conoscono i metaboliti ma non le cause che ne determinano il contenuto e, soprattutto, si sa molto poco sul gusto, sui metaboliti non volatili che determinano la cosa più importante del cibo: il corpo, la persistenza, le sensazioni in bocca. E questo vale non solo per il grano ma per tutte le materie prime, ad eccezione dell’uva e compreso la birra (perché l’orzo è un perfetto sconosciuto).
Quindi, noi non sappiamo cosa determina il livello qualitativo del cibo. Perché una patata ha sapore o perché non ne ha? E se la ricerca ignora questo argomento, il livello qualitativo è casuale. Ma questo non spiega perché le probabilità che il cibo che acquistiamo sia scadente sono alte. Torniamo al mercato.
Da decenni i consumi aumentano ma rimangono sempre inferiori di circa il 2% della produzione. Quindi ogni anno migliaia di aziende devono chiudere. Ma siccome il prezzo è unico, e quindi, pochissimi ricevono un prezzo pari al livello qualitativo della materia prima, sono destinate a chiudere quelle aziende che hanno costi più alti. Ecco perché ancora adesso all’Università si insegna che bisogna diminuire i costi e aumentare il livello produttivo. Ecco perché le aziende intensive diventano sempre più intensive, mentre i piccoli chiudono. E il latifondo ritorna. E la qualità si abbassa.
E ci spieghiamo perché i produttori agricoli sono i primi a non parlare di agricoltura. Vogliono il prezzo garantito anche se basso. Tanto la qualità la fa l’industria.
Ma se la qualità è casuale, quale è la reazione del mondo gastronomico? Identico, tanto tutto è tecnica, la materia prima non conta, un buon chef sa come fare. È pur vero che molti si vantano di selezionare le materie prime, ma come fanno se il mondo scientifico non sa come ottenere il livello qualitativo desiderato? A questo punto bisogna parlare della stampa enogastronomica. Un tempo era un piacere leggere articoli di gastronomia. Non tanto perché c’erano critiche anche feroci, quanto perché alcuni gastronomi con le loro valutazioni stimolavano i produttori a migliorarsi. Penso al mondo del vino. Ora invece è tutto una agiografia inarrestabile, solo lodi con aggettivi sempre nuovi e acrobatici. Eppure, mai come adesso si mangia male nei ristoranti e spesso anche a casa.
Quindi la stampa non aiuta, il mondo scientifico idem, i protagonisti pensano ad altro.
L’agricoltura non esiste più perché nessuno la vuole. Almeno in Italia o forse soprattutto in Italia.
Almeno per quanto mi riguarda, questa situazione si può invertire solo se si affronta il tema del prezzo delle materie prime. O il latte, la carne, il grano le patate vengono pagate in relazione al livello qualitativo, oppure mangeremo sempre peggio, i piccoli finiranno per scomparire definitivamente e l’agroindustria dominerà definitivamente il mercato.