ESISTE UN METODO SEMPLICE ED EFFICACE PER PAGARE IL LATTE IN FUNZIONE DELLA QUALITA’? NON MANCA IL METODO MA CHI È INTERESSATO AD APPLICARLO!

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I consumatori non sono tutti uguali. C’è chi non dà alcuna importanza al cibo, chi invece ne fa quasi una medicina e poi c’è una piccola fascia che pensa: poco ma buono!

Personalmente, un po’ per piacere e anche per lavoro, preferisco andare alla ricerca del meglio, visto anche che i prezzi dei formaggi sono fra i più bassi in assoluto. Per noi che amiamo la puzza sotto il naso, di questi tempi non c’è da stare allegri, soprattutto al Sud, dove vivo.

Gli animali sono in stalla, i pascoli sono coperti di neve o senza erba, i fieni sono a dir poco scadenti, i concentrati la fanno da padrone per cui trovare una ricotta, una mozzarella, un formaggio fresco che siano, per me, accettabili è quasi impossibile. Bisogna solo far ricorso a formaggi d’alpeggio o da pascolo dell’anno scorso.

Perché questa situazione? Perché il prezzo del latte è unico e, laddove l’industria parla di pagamento a qualità, si prende in considerazione il grasso e la proteina, così come l’industria molitoria tiene conto della proteina del grano, parametri questi che non hanno alcuna relazione con la complessità aromatica e nutrizionale, ma che intervengono nei processi produttivi aumentando la resa, nel caso del latte, e migliorando la tenacità della pasta, nel caso della farina.

Ma al consumatore non interessa la resa, perché paga sempre lo stesso prezzo il kg di formaggio. I caseifici insistono sulla resa in parte perché basano la loro strategia commerciale solo sul prezzo, che deve essere il più basso possibile e in parte perché sono convinti che tutto il latte è uguale, che è solo questione di tecnica.

Quindi, i casari pagano lo stesso prezzo a tutti, gli allevatori non hanno alcun interesse a migliorare la qualità, un consumatore come me rinuncia a mangiare formaggi freschi, e, più in generale, la qualità media si va sempre più abbassando.

C’è una via di uscita? Certo, potremmo copiare il modello applicato nel mondo del vino. Qualsiasi produttore sa che con lo stesso vitigno e nello stesso terreno può produrre vini profondamente diversi lavorando soprattutto sulla resa per ettaro e poi facendo le cose per bene in cantina. E il prezzo dell’uva è molto diverso. Lo stesso possiamo fare nel mondo del latte.

Prima di tutto proviamo a condividere alcuni concetti. Il casaro per qualità intende la resa, ma il consumatore, che è quello che paga, intende il sapore, l’aroma, il gusto e, perché no, il valore nutrizionale.

Per capire meglio di cosa parliamo prendiamo i due burri della foto. Stiamo parlando di un prodotto che non richiede particolari tecniche, affioramento della panna e centrifugazione, e che si può gustare appena fatto. Quindi niente stagionatura, niente processi chimici.

Questi due burri sono molto diversi nel colore e se potessimo assaggiarli, nell’odore, nell’aroma e nel gusto.

Nel caso specifico le differenze sono enormi. Quali sono le molecole responsabili della diversità?

I due burri hanno la stessa quantità di grasso, anche se il burro verde ha più acidi grassi insaturi che incidono leggermente sull’aroma, e la stessa quantità di proteina(tracce).

Quindi, la loro diversità non dipende da grasso e proteina ma da altre molecole. Quali? Il colore è legato soprattutto ai carotenoidi, molto più alti nel burro giallo e un poco anche ai flavonoidi. L’odore dipende essenzialmente dalle componenti volatili: acidi, aldeidi, chetoni, terpeni. Il gusto dipende da molecole più pesanti, secondo me in gran parte dai polifenoli. Devo dire che su questo punto il mondo scientifico non ha le idee molto chiare, ma non c’è spazio per discutere di questo.

Qui rimarco solo che il flavour fra i due burri è molto diverso e certamente non è additabile a grasso e proteina. Perché quei burri sono diversi? Perché il primo è stato prodotto con vacche alla stalla e alimentate con quantità enormi di concentrati e il secondo al pascolo, su prati polifiti e senza mangimi. Quindi, secondo me, l’alimentazione è quasi l’unica responsabile della complessità aromatica e nutrizionale del latte e del formaggio.

Un concetto che per molti sembra assurdo o rivoluzionario, ma che per le donne che allattano è nell’ordine delle cose. Anzi se il figlio potesse parlare, non ci sarebbe discussione. Ma anche su questo la scienza va a tentoni, si preferisce parlare di razze o di varietà antiche, di microbismo ruminale o di tecnica.  Certo la tecnica ha la sua importanza, ma se produciamo 300 quintali di uva per ettaro non possiamo pretendere di fare un grande vino solo perché abbiamo una tecnica raffinata.

Torniamo all’alimentazione degli animali. I carotenoidi sono presenti nell’erba e sono legati ai cloroplasti. E anche le sostanze volatili, quelle che danno profumo e aroma, sono legate ad entrambi. Se attraversiamo un campo verde, sentiamo profumi che possono essere diversi se il prato è polifita. Se invece è un erbaio il tutto è attenuato.

Quindi ogni erba apporta molecole diverse al latte e al formaggio e più erbe ci sono nel prato e meglio è. A mano a mano che l’erba secca i carotenoidi e i volatili diminuiscono mentre aumentano i polifenoli. Almeno fino a fioritura inoltrata, dopo di che anche questi diminuiscono, anche se cambiano diventando più pesanti. Tutto questo lo possiamo sentire nei formaggi.

Caciocavallo podolico

A inizio di pascolo i formaggi sono gialli o verdi (altro discorso per il colore della capra e della bufala), l’odore è intenso ma il gusto leggero e corto. A mano a mano che si va avanti il colore diminuisce così come l’aroma, mentre il gusto risale. Verso la fine il formaggio perde colore, poco odore e gusto lungo.

E i concentrati? In generale possiamo dire che hanno un effetto diluizione, come i concimi: l’animale produce più latte ma questo è più diluito.

Si può pagare il latte in funzione della qualità aromatica e nutrizionale? Certo che sì!

Basta fare un disciplinare e un relativo contratto che contempli tutto quello che ho scritto. In Francia la quasi totalità dei disciplinari dei formaggi DOP descrive nei dettagli l’alimentazione, i prati naturali, i fieni e impongono, per le vacche, un massimo di 1800 kg/anno per capo.

Un buon disciplinare deve tenere conto del pascolo (polifita o erbai, perché le differenze sono importanti ed evidenti), del fieno (deve essere di qualità) e dei concentrati (più aumentano i concentrati è più basso sarà il prezzo). I controlli sono abbastanza semplici da fare e qualsiasi ente di certificazione è in grado di effettuarli e comunque, siccome la produzione è legata all’alimentazione e ai concentrati, una variazione quantitativa sarebbe subito individuata dal casaro, perché questo controllo lui può farlo tutti i giorni.

Quindi oggi noi possiamo decidere a tavolino il livello qualitativo del formaggio. Per farlo occorre andare nella direzione opposta: i latti non vanno miscelati ma separati per permettere di avere, con la stessa tipologia, formaggi con un livello qualitativo anche molto diverso, come nel caso dei burri e del vino.

Ma come si inverte il cammino? Chi deve fare il primo passo?

Toccherebbe ai casari, ma non ne hanno la forza. Forse dobbiamo copiare, ancora una volta, quello che è stato fatto nel mondo del vino: corsi, corsi e corsi. Ma non portando in degustazione formaggi, ancorché prestigiosi, senza “curriculum”, bensì formaggi di cui si sa tutto sull’alimentazione del bestiame, se a latte crudo o pastorizzato, se prodotti con fermenti, con siero innesto o acido citrico.  Il tutto rigorosamente alla cieca.

Solo allora potremo avere consumatori che di proposito entrano in “quella” gastronomia perché cercano “quel” formaggio prodotto con il latte di animali che hanno pascolato su prati polifiti e lavorato senza fermenti e a latte crudo. E per quel consumatore, il prezzo sarà ininfluente.

Ma la cosa più importante è che con questo metodo, ciascuno, consumatore, produttore e casaro, otterrà un prezzo giusto e correlato al livello qualitativo del formaggio