Se il prezzo non è redditizio il produttore cerca di aumentare le quantità. Se paghiamo la materia prima in funzione del livello qualitativo, ciascuno produrrà secondo le proprie competenze e le proprie scelte e gli animali ritorneranno a pascolare.
Oltre al Coronavirus c’è un altro virus che si aggira per il globo: il manicheismo, che poi diventa giustizialismo fino a terminare nel semplicismo più assoluto.
Due trasmissioni televisive, sempre su RAI 3, di Pasqua e Pasquetta hanno rappresentato bene questa moda: gli allevamenti intensivi sono il male assoluto e, visto che ci troviamo, siccome gli allevamenti vengono fatti con gli animali e questi emettono anidride carbonica, che inquina, ergo, gli animali inquinano.
A questo punto ci aspettiamo l’evoluzione di questo approccio culturale: le colture vegetali intensive inquinano, quindi le piante inquinano, smettiamo di mangiare vegetali.
Più semplice di così, a questo punto che serve studiare o leggere libri.
E un esempio lo hanno dato i protagonisti del servizio sulla Bresaola della Valtellina che, come sanno gli appassionati, viene prodotta prevalentemente con la carne di Zebù che viene dal Brasile.
Zebù? A sentire questa parola il presidente della Coldiretti, grosso allevatore di vacche del bresciano, ha detto che non è un bovino ma un incrocio con una zebra, ha la gobba come un cammello.
Il giornalista che lo intervistava è rimasto sorpreso, si girava per chiedere consulto a chi lo accompagnava, non sapeva come continuare.
Una zebra? Perché un servizio sulla zebra del Brasile?
Perché l’equazione è semplice: la Ripamonti, azienda che produce la Bresaola con carne brasiliana di zebù che però è una zebra o qualcosa del genere, è stata acquistata dal più grosso produttore ed esportatore di carne che è la JBS, che possiede in Brasile territori sterminati ottenuti in seguito a deforestazioni abusive.
Quindi Report ci ha dato una notizia che sapevamo già: in Brasile c’è una deforestazione selvaggia; poi ce ne ha data un’altra che nemmeno immaginavamo: che lo zebù non è un bovino, mentre invece il suo nome latino è Bos Taurus Indicus, bastava andare su Google, per lasciare in noi un messaggio subliminale che la Bresaola della Valtellina è fatta con carne illegale.
Che poi subliminale tanto non è, perché questa storia dello zebù che finisce nella nostra IGP circola ciclicamente e viene sostenuta da molti tifosi della italianità del cibo.
Il semplicismo a volta complica le cose semplici.
La Bresaola della Valtellina è una IGP, cioè un marchio europeo che non impone l’origine della materia prima ma solo il tipo di tecnica di produzione.
E il marchio lo hanno chiesto i valtellinesi, anche perché carne, da quelle parti e non solo, non ce n’è.
O non ce n’è abbastanza per tenere in piedi un industria di trasformazione. La carne bisogna importarla.
Gli industriali del settore da decenni hanno scelto come canale principale il Brasile, perché da quelle parti la carne costa meno.
La domanda che ci dobbiamo porre e che si deve porre anche un buon giornalista è: al consumatore, che alla fine è quello che paga, cosa interessa?
Certo non ci possiamo chiedere se i pascoli del Mato grosso sono legali o se provengono da situazioni illecite.
Perché allora faremmo prima e meglio a chiederci se possiamo comprare e mangiare gran parte dell’ortofrutta che si produce in Italia, quando sappiamo come vivono e come vengono trattati e pagati i raccoglitori di pomodori, arance, ecc, in alcune aree della penisola.
Ora, a noi consumatori interessa la salubrità e la qualità del prodotto, dove per qualità intendiamo l’aroma, il gusto e il valore nutrizionale.
Bene, da cosa dipendono questi parametri?
Dall’alimentazione degli animali per quanto riguarda le caratteristiche organolettiche e il valore nutrizionale e dalla tecnica di produzione e dalla qualità dell’ambiente per quanto riguarda la salubrità. E bastava vedere le immagini trasmesse per capire di cosa stiamo parlando.
In Italia, chi fa carne, la fa con animali alla stalla, alimentati soprattutto a mangimi, in ambienti angusti e in territori inquinati.
Nel servizio abbiamo visto vacche, o meglio zebre, o chissà che cosa al pascolo, su prati verdi tutto l’anno, in un ambiente sano, senza l’ombra di un elemento inquinante, con un carico di meno di una vacca per ettaro.
Animali che mangiano solo erba e niente mangimi e figuriamoci se gli danno ormoni o fattori di crescita. Insomma: cosa c’è di meglio.
Report poi ha trasmesso un servizio sugli allevamenti intensivi del bresciano collegando lo spargimento dei liquami al focolaio di Coronavirus in quel territorio.
Non ho le competenze per ragionare sul ruolo dell’inquinamento e sugli effetti collaterali. Però il servizio si è occupato soprattutto degli allevamenti intensivi. Lungi da me l’idea di difenderli, ma io non credo che sia questo il miglior modo per costringerli ad abbassare il livello di intensività.
Se vogliamo risolvere il problema dobbiamo andare all’origine, alla causa che lo ha determinato, perché, nonostante che da anni si parli malissimo di questi allevamenti, il loro numero aumenta sempre più.
Perché? Perché il prezzo unico della materia prima, il latte e la carne spinge, chi non vuole soccombere, ad aumentare il livello produttivo e a ridurre i costi. Quindi, a rendere più intensivo l’allevamento, anche con pratiche poco chiare.
Allora la battaglia si deve fare sui prezzi del latte e della carne. La borsa merci va eliminata, il prezzo deve essere legato al livello qualitativo.
La differenza di qualità fra quella carne di zebù e quella di tanti vitelloni nostrani o che stanno in stalla e mangiano solo paglia e mangimi può essere di venti anche trenta volte superiore.
Ma attualmente il prezzo è uguale.
Smantelliamo questo meccanismo, diamo il giusto a tutti, a chi fa l’intensivo e a chi lascia pascolare tranquillamente le sue vacche e vedremo che tutto diventerà meno intensivo, perché non ce ne sarà più bisogno.
Ma vuoi mettere come è più semplice e fa più audience dire e non dire, è una zebra o uno zebù, meglio lasciare tutto nel vago.