IL MODELLO DI SVILUPPO FUTURO DELL’AGRICOLTURA SI DEVE BASARE SUL DOMINIO DEL LIVELLO QUALITATIVO DELLE MATERIE PRIME

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Lo scorrere del tempo porta con sé cambiamenti, stravolgimenti, riassestamenti, scomparsa ed esplosione di nuovi modelli produttivi e culturali. L’agricoltura da secoli conosce un lento declino in termini di addetti e un inarrestabile miglioramento in termini di innovazione. E in fondo le due cose sono strettamente correlate.

Fra i vari settori, la zootecnia è quella che, in questo momento, risente di più e per vari motivi del clima meteorologico e culturale che ci investe. Si produce di più con meno animali, quindi le aziende chiudono a tutte le latitudini ma, in aggiunta, tira una brutta aria di aperta ostilità nei confronti dell’allevamento per il combinato disposto: riscaldamento del clima e veganismo.

È di questi giorni la notizia che Bill Gates ha apertamente dichiarato che l’allevamento animale è fra i principali responsabili del riscaldamento globale e che una sua drastica riduzione è nell’ordine delle cose. Se a questo aggiungiamo il prezzo unico delle materie prime, uguale per tutti, le politiche perverse della GDO, i lupi che rendono precari gli alpeggi e una cultura gastronomica che preferisce giocare sulle parole piuttosto che andare sulla sostanza, sul livello qualitativo del cibo, si capisce bene come il futuro non sia roseo, anche perché uno degli effetti, che resta però subliminale, è la mancanza di un modello di sviluppo alternativo.

Perché siamo arrivati a questo punto e chi può tirarsi fuori con la certezza di poter affermare: io non c’ero?

Probabilmente all’origine dell’attuale modello di sviluppo c’è stata la necessità, e stiamo parlando dell’immediato dopoguerra, quando si è passati da una agricoltura di vicinato ad una di mercato, di individuare un meccanismo di confronto fra produttori e industria di trasformazione che permettesse ad entrambi di affrontare con più tranquillità le trasformazioni, gli stravolgimenti a cui entrambi erano chiamati.

Il produttore aveva bisogno di un prezzo, seppur minimo, ma garantito; l’industria aveva bisogno di una materia prima sempre disponibile, al minimo costo e con caratteristiche tecnologiche stabili.

Questo meccanismo però, se da una parte, ha consentito all’industria di arrivare sulle tavole di tutti i consumatori con un prodotto sempre uguale e sempre più sicuro, dall’altra ha messo in crisi il produttore perché il prezzo unico non teneva conto che le realtà e i sistemi di allevamento erano e restano profondamente diversi. Un tassista spagnolo un giorno mi disse che il padre, che aveva otto vacche, non dava ai figli il latte di miscela, ma solo quello della vacca più grassa e che faceva meno latte. Ed è vero, c’è una stretta relazione fra quantità e qualità.

Quindi, se c’è tanta diversità fra gli animali figuriamoci quella che c’è fra i sistemi di allevamento. Ma se il prezzo è unico, è chiaro che sarà allineato al livello più basso di qualità, per il semplice fatto che chi dispone di un allevamento super intensivo ha costi più bassi e può imporre il suo prezzo. Quindi, chi produce qualità è stato costretto o ad abbassare il livello qualitativo o a ricorrere a modelli alternativi. Ed è a questo punto che nasce, in po’ in tutti i paesi del mondo, la necessità tecnica e culturale di individuare modelli più produttivi.

Quasi sempre si è optato per l’importazione dall’esterno di tali modelli. In questi casi l’iter è sempre lo stesso: i tecnici propongono, la scienza approva, i politici non possono fare altro che indirizzare i finanziamenti verso le direzioni indicate. E così, invece di migliorare l’esistente, di valorizzare il livello qualitativo di un prodotto che sapevamo eccellente, abbiamo importato modelli e culture nella speranza di sostenere meglio le tempeste del mercato.

Qualche cosa ha funzionato ma della gran parte sono rimaste le macerie. Abbiamo dato il premio alla vacca che faceva più latte (proviamo ad immagine le risate se un vignaiolo avesse detto di voler fare un grande vino con viti ad altissima produzione), abbiamo importato razze animali e varietà vegetali da tutto il mondo, con problemi sanitari enormi, abbiamo appiattito il flavour del cibo, abbiamo glorificato l’insapore inneggiando anche al legame con il territorio.

Ma l’importazione di modelli ha riguardato anche le leggi. Gli animali dovevano essere iscritti al libro genealogico. E quindi, dal momento che non c’era un libro genealogico per pecore, capre e suini, chi voleva i sussidi doveva ricorrere a materiale genetico estero. Salvo poi tornare indietro e dare altri soldi per recuperare le razze autoctone in via di estinzione. Per valorizzare il prodotto, meglio mettersi in cooperativa, perché si creano economie di scala e perché, aumentando il potenziale di offerta, aumenta il potere contrattuale. Ma per fare una cooperativa occorrono almeno nove soci, non parenti fra loro. Di cooperative ne sono state fatte centinaia, solo poche si sono salvate e alcuni dei crolli hanno fatto molto rumore.

Di chi è la colpa? Ma dei pastori naturalmente, perché sono egoisti! Questo esempio a me sembra paradigmatico perché ci spiega meglio di qualunque altro le motivazioni della crisi attuale. Abbiamo sbagliato l’analisi e, quindi, la soluzione; la medicina, invece di risolvere il problema, lo ha aggravato. Se si sapeva, e non poteva essere che così, visto il tipo di vita che fanno, che i pastori sono individualisti, bisognava partire da quella caratteristica in fase di programmazione e di legiferazione. E poi chi l’ha detto che la parola individualismo debba avere un’accezione negativa, mentre il cooperativismo debba essere coniugato in positivo? Forse in questo caso bastava copiare i francesi.

Agli inizi degli anni ’50, De Gaulle fece una legge in base alla quale per fare una cooperativa bastavano due persone anche familiari (i Gaec).

Eppure, nel settore esistevano forme di cooperazione. Penso alla tassa di solidarietà che ciascuno si imponeva allorquando un pastore perdeva un animale per motivi vari: incidente, lupi, malattia. Ancora oggi, in alcuni paesi della fascia pedemontana, gli allevatori che hanno un numero ridotto di animali si uniscono, assumono un pastore e mandano in alpeggio, in un unico gregge, tutti gli animali.

Nelle latterie turnarie degli alpeggi, i pastori della stessa malga mettevano e mettono insieme il latte e poi dividono i formaggi in relazione al latte prodotto da ciascuno.

Passata la moda dei modelli esterni siamo stati costretti a fare i conti con la biodiversità che stava scomparendo.

Ma ancora una volta, invece di considerare la biodiversità come una caratteristica, come una componente del paesaggio e del modello produttivo, è stata considerata come lo strumento ideale, quasi “miracoloso” su cui basare lo sviluppo.

E così, ancora una volta, invece di puntare sul miglioramento e sulla valorizzazione di tutto l’esistente, ci siamo rifugiati in una nicchia dalla quale non ne sappiamo venire fuori: le razze animali, i grani antichi, le cipolle di questa o quella varietà e così via.

Ritornando alle vacche del tassista spagnolo, se persino fra otto vacche della stessa stalla c’era una diversità, figuriamoci fra le razze.

E allora? Certo che il Moscato è diverso dalla Malvasia, ma questo non vuol dire che uno sia superiore all’altro solo perché si chiama Moscato. Anzi ci sono moscati da qualche euro e moscati da decine di euro. Quindi, se diversità significa superiorità, allora siamo diventati razzisti a nostra insaputa. E ancora una volta il mondo scientifico ha le sue colpe perché cavalca oltre ogni limite questa moda.

Dopo tanto rumore, tante risorse finanziarie ed umane utilizzate e in parte sprecate, siamo ancora qui a prendere nota di aziende che chiudono, a meravigliarci che il prezzo delle materie prime sia ancora unico e uguale per tutti, che la qualità vada peggiorando, anche se, per fortuna e per chissà quale miracolo, la nostra gastronomia va a gonfie vele, è famosa nel mondo e tutti ne andiamo fieri.

Eccetto quando siamo a tavola, quando siamo costretti a dire o pensare: ma perché il cibo è sempre più insapore?

E i modelli di sviluppo?

Alcune mode sono passate, lo struzzo, l’asina, le razze animali; resistono, ma ancora per poco i grani antichi e il prodotto che potremmo chiamare “prima”, prima gli americani, prima gli italiani, insomma noi siamo i più bravi e gli altri devono pagare dazio. Il vento però sta cambiando per effetto del Covid.

Finora i produttori avevano cercato con tutti i mezzi di accorciare la filiera, di arrivare direttamente sulle tavole dei consumatori perché i costi di intermediazione vengono scaricati spesso sui produttori.

Normalmente la materia prima incide sul costo al consumatore non più del 10%. In molte parti del mondo, i produttori che stentano a rientrare nei costi perché schiacciati dal prezzo unico delle materie prime, da tempo stanno cercando una soluzione per completare la filiera in azienda e per arrivare direttamente al consumatore. Molti produttori di latte hanno organizzato il caseificio in azienda, così come i produttori di vitelli o agnelli da carne si sono organizzati per terminare la fase di ingrasso nello stesso allevamento.

Ma anche questa volta l’approccio al problema è lo stesso: ci si preoccupa del mezzo e non del fine.

Devo fare un caseificio? Quali attrezzature devo comprare, a chi vendo i miei formaggi, quale strategia uso per abbassare i costi e per offrire il mio formaggio a minor prezzo?

Lo stesso fanno i produttori di carne: come faccio a finire in azienda il ciclo produttivo oppure, se in azienda non è possibile, come posso unirmi ad altri produttori per organizzare una stalla collettiva? Ma lo stesso potremmo dire che succede nel mondo dei vegetali, il grano in primis. Molti produttori di grano si sono organizzati per produrre pasta, facendo lavorare il grano ad un mulino e poi utilizzando l’industria pastaia per conto terzi.

Quindi, l’approccio è sempre lo stesso: mi preoccupo di come produrre e non di cosa produrre, o meglio, quale dovrà essere il livello qualitativo del mio prodotto.

Torniamo al problema madre.

Se all’origine di questa debolezza c’è il fatto che il prezzo delle materie prime è unico, è in quella direzione che devo procedere, devo scardinare quella logica e impossessarmi delle chiavi di lettura del mio livello qualitativo.

Se il latte, la carne, il grano eccetera non sono tutti uguali, allora io devo decidere a favolino il livello qualitativo che voglio offrire al consumatore, presupponendo di conoscere non solo le tecniche per produrlo ma anche le parole chiavi per poterlo raccontare correttamente e senza inutile enfasi.

Prendiamo l’esempio dei caseifici aziendali e della carne.

In Sardegna, come in altre località e non solo in Italia, in risposta alle ricorrenti crisi del latte molti allevatori hanno preferito lavorare il latte in azienda.

Ma, come spesso succede, hanno finito per produrre gli stessi formaggi che l’industria offre a prezzi più bassi e, quel che è peggio, hanno utilizzato non solo la stessa tecnica dell’industria, ma anche lo stesso racconto.

Prendiamo il caso del pecorino in Sardegna. Tutti producono pecorino, l’industria e i caseifici aziendali. Ma il pecorino non si vende fresco, si stagiona. L’industria lo fa nelle celle frigorifere e usa latte di miscela. Quindi la prima cosa che un allevatore dovrebbe fare è individuare i fattori di produzione che potrebbero fare la differenza. In primis la stagionatura, che è importante.

Invece di comprare una cella frigorifera, potrebbe costuire un locale di stagionatura naturale. E poi, lui dispone della materia prima, il latte. L’industria deve per forza miscelare e, paradossalmente, siccome la media è sempre superiore al valore più basso, è molto probabile che il latte che va all’industria sia di livello superiore a quello della singola azienda.

Quindi, l’allevatore deve lavorare molto sul latte, producendo buoni, grandi fieni e facendo pascolare gli animali su prati polifiti e non su erbai. Solo così potrà ottenere un grande latte e un grande formaggio, con il vantaggio di disporre anche delle parole giuste per raccontare questa superiorità.

Invece, in queste aziende non solo non ci sono le grotte, i locali naturali di stagionatura, ma i fienili sono precari, la qualità del fieno modesta. A questo punto si potrebbe migliorare il migliorabile lavorando crudo il latte e non utilizzando i fermenti. Ma non sempre succede, o quasi mai.

Nel mondo della carne il meccanismo è più semplice.  Non c’è lavorazione e l’alimentazione è quasi sempre la stessa: concentrati a volontà o quasi e paglia. Pochissimi usano il fieno, ancora meno quelli che dispongono di un buon fieno.

Invece la buona carne, quella che ha aroma e gusto si fa con l’erba, con le molte erbe dei prati naturali. Gli animali stanno bene, l’ambiente ne beneficia e il consumatore sarà contento di gustare finalmente una carne che ha una forte personalità.  Poi non importa o importa poco come si raggiunge questo obiettivo: cooperativa, stalle collettive, caseifici turnari o altro. L’importante è immettere sul mercato un prodotto che sia diverso da quello che il consumatore abitualmente trova e che paga a poco prezzo.

Il Covid ha esponenzialmente aumentato le possibilità di vendere per corrispondenza qualsiasi prodotto, anche alimentare. Quindi le distanza si sono annullate, tutti hanno le stesse opportunità. Anzi queste opportunità sono più alte quanto più si è lontani dai centri di acquisto. Quello che era un handicap è diventata una risorsa. Bisogna saperla sfruttare, cambiando prima direzione e poi marcia.