di Roberto Rubino
La fine dell’estate porta con sé, forse, le piogge, ma sicuramente il risveglio di una parte del mondo agricolo, perché in quel periodo il nuovo grano non è ancora pronto mentre le scorte si vanno esaurendo e, quindi, l’arrivo dei grani esteri su alcuni porti del Sud è nell’oridne delle cose.
Infatti, in questi giorni, al porto di Pozzallo è arrivata una nave stracarica di grano, canadese dicono, e da più parti si impreca e si invocano misure a tutela del grano italiano.
I produttori accusano il grano canadese di avere livelli di glifosate molto alti, i mugnai dicono che non è vero e che tutto rientra nella legge, i pastai fanno notare che il grano italiano non è sufficiente, il resto degli attori che ruotano intorno alla filiera cerealicola se la prendono con i soliti noti: la GDO, i pastifici industriali, i grandi mugnai, insomma, la colpa è sempre altrove.
Non sono un esperto del settore, non mi occupo di grano e forse proprio per questo posso dare una lettura diversa di una materia prima che, per molti versi, ha gli stessi problemi del latte, di cui invece mi occupo.
C’è una relazione fra l’arrivo del grano estero e la crisi perenne del grano italiano?
Nessuna!
Potrà sembrare strano, ma nel mondo l’Italia è conosciuta come il paese della pasta e non del grano.
Abbiamo una industria famosa e importante, produciamo al massimo il 70% del fabbisogno, mentre l’industria esporta più del 50% della produzione.
Se non avessimo una industria così solida, forse i granicoltori avrebbero ancora più problemi.
E allora perché si lamentano i nostri produttori?
Perché il prezzo del grano è basso.
Lo stesso dicono in tutto il mondo i produttori di grano, di latte, e poi di carne, e poi di riso e giù per li rami.
Ma il prezzo è basso non perché arriva il grano estero, tanto deve arrivare per forza, altrimenti molti pastifici chiuderebbero e non credo che il grano italiano se ne avvantaggerebbe, ma perché lo stesso viene deciso da una borsa merci dislocata chissà dove.
Quindi il prezzo non è legato al grano di importazione ma al mercato mondiale.
In pratica funziona più o meno così: il prezzo base lo fa la borsa merci che tiene conto delle scorte e della domanda, poi a livello locale i pastifici danno una premialità in base soprattutto al contenuto di proteina, perché è la proteina che entra in gioco nei processi di trafilatura e nella tenuta di cottura della pasta.
Quindi, il grano canadese o di altri paesi deve essere importato e siccome contiene spesso più proteina dei grani italiani viene anche pagato di più.
Tutto regolare, perché questo meccanismo è accettato da tutti, produttori compresi e poi dall’industria molitoria e dall’industria di trasformazione.
Ma i produttori, i più deboli della catena, sono in difficoltà e hanno trovato il capro espiatorio nel glifosate per far sentire le loro ragioni.
In pratica hanno fatto passare il concetto che il grano canadese, e visto che ci troviamo, che qualsiasi grano estero non è sicuro, quindi è meglio il grano italiano.
Non a caso una delle maggiori industrie italiane ha dichiarato che utilizzerà solo grano italiano.
Ora, una cosa è che il grano canadese sia inquinato da glifosate e un’altra è che anche i grani esteri lo siano.
Ma ammesso (e non concesso, avrebbe detto Totò), che il grano canadese sia inquinato, a cosa serve andare a bloccare le navi nel porto?
In Italia e nella UE ci sono leggi severe.
Se non è vero, si cambiamo le leggi e se invece non vengono rispettate si fa sciopero sotto la Farnesina o la Finanza chiedendone il rispetto.
Comunque, ammettiamo che sia vero: il grano canadese è inquinato!
Le navi non sbarcano e i pastai, se non vogliono chiudere, devono trovare altro grano.
Per esempio, in giro per il mondo c’è il grano del deserto, viene dall’Arizona, è coltivato nel deserto, appunto, senza trattamenti, perché a quelle temperature nulla resiste, ma viene sistematicamente irrigato e la proteina è alta, così come le rese.
Viene definito il miglior grano al mondo.
Come la mettiamo?
Il problema, qualsiasi, si risolve se ne elimini le cause che l’hanno determinato.
Non ha senso parlare male dell’avversario, trova in te le ragioni della diversità e, se possibile, della superiorità. I forti non parlano male degli altri, non ne hanno bisogno.
Torniamo al grano dell’Arizona.
Passa per il miglior grano al mondo.
È vero?
Dipende dall’unità di misura che si utilizza.
Se si utilizza quella attuale e condivisa da tutti, granicoltori italiani compressi, certo che è vero, verissimo.
Ma siamo proprio sicuri che è così?
Lasciamo per un attimo i protagonisti e proviamo a vederla dalla parte del consumatore, che poi è quello che paga.
E che non viene mai preso in considerazione.
E restiamo in Sicilia. Se ci facciamo un giro per l’isola e frequentiamo i fornai o i pastai, ci accorgiamo che quel pane o quella pasta hanno una personalità intensa, spiccata, quasi come il dialetto e la cultura di quel popolo.
Siamo quindi autorizzati a dedurre che da quelle parti il grano sia straordinario.
E basta anche osservare i campi di grano, le colline aride e asciutte, il giallo intenso del paesaggio per capire che non possa essere che così.
Ma se quel grano lo valutiamo in base alla proteina, molto probabilmente dobbiamo prendere atto che questa non ha gli stessi valori del grano dell’Arizona.
E però, quest’ultimo, è prodotto in un ambiente simile, arido e asciutto, ma è irrigato a goccia e concimato al massimo.
Le rese sono enormi.
Non ho assaggiato il pane o la pasta fatta con quel grano, ma giocherei facile se scommettessi su un trionfo dell’insapore.
Quindi, secondo me, quel grano vale meno, molto meno di quello siciliano.
Quante volte meno? Cinque? Dieci?
Non lo sappiamo ma sono sicuro che stiamo da quelle parti.
Quindi, premesso che non tutto il grano italiano è uguale, noi abbiamo grandi grani, ma non sappiamo il perché. La prima cosa da fare sarebbe quella di richiedere un prezzo in base al livello qualitativo, se sapessimo come misurarlo.
E allora, non serve scendere in piazza, occorre impadronirsi degli strumenti per misurare il livello qualitativo del grano, livello che faccia riferimento al flavour del pane e della pasta, perché è questo che vogliono i consumatori, un pane o una pasta che abbiano odore e sapore, non un alto contenuto di proteina.