Il Covid 19 ci sta obbligando a guardare in faccia la qualità, ma i produttori devono organizzarsi per calibrare meglio il messaggio e la propria immagine. Ce lo raccontano Micaela Grossi e Cecilia Sgherza
Guardando la realtà con gli occhi del marziano – oggettivamente imparziali in quanto parte di una dimensione aliena – non potremmo in tutta sincerità prevedere se il mondo “post-Covid-19” sarà peggiore o migliore di quello attuale.
Possiamo però già oggi affermare con certezza che sarà differente, e non solo perché magari per qualche mese o anno (dio non voglia!) ci saremo assuefatti ad andare in giro con le fatidiche mascherine anti-contagio.
Ci sarà la recessione economica, d’accordo. E questo è un altro dato da non sottovalutare, ma del quale neppure aver paura perché dipenderà soltanto dal nostro coraggio e dalla disposizione al cambiamento se gli effetti della congiuntura saranno contenuti o disastrosi.
È su queste due considerazione che oggi conviene ragionare senza complessi, preparandosi al futuro.
Prendiamo per esempio la cattività cui siamo stati costretti: psicologicamente frustrante, fisicamente dura (la bilancia ne può esser testimone), eppure una serie di riscoperte familiari e personali, ben analizzate, possono indurre elementi di speranza.
Si è tornati in molte famiglie a sfornare il pane, se non addirittura a cimentarsi con la coltura del lievito-madre: chi avrebbe mai potuto immaginarlo!
In un campo più generale, la pandemia del Covid-19 ha fatto esplodere in tutto il mondo gli acquisti online, ma nel contempo rivitalizzato anche alcune piccole bottegucce dimenticate nei pressi di casa (ma preziosissime per non avere a che fare con la massa critica dei supermercati).
Amazon, il colosso di Jeff Bezos, ha appena annunciato la creazione di altri 75.000 posti di lavoro che si vanno ad aggiungere alle 100.000 persone già assunte a tempo pieno o part-time nelle settimane precedenti: segno di un’avanzata travolgente e del cambiamento ormai assodato del nostro modo di compiere acquisti.
Con più della metà degli abitanti del pianeta costretto in casa, gli acquisti online sono diventati consuetudinari anche per i generi alimentari, comparto che fino a ora aveva avuto un ruolo marginale.
Si è allargata – fattore ancora poco studiato – anche la platea degli accessi al Web: quasi tutti i nonni hanno finalmente scoperto il computer e iniziato a ordinare di tutto perché “è bello farsi consegnare direttamente la spesa sull’uscio di casa senza alcuna fatica mettendo la spesa nel carrello virtuale semplicemente con un dito”.
Ora che il vaso di Pandora si è scoperchiato, difficile che questi neo-consumatori a pandemia finita tornino alle vecchie – e magari assai scomode – abitudini.
Ancora più importanti, forse, sono alcuni cambiamenti registrati dentro le mura domestiche.
La “cura” del cibo ha riempito le giornate, al punto che il cambio dei consumi è stato già fotografato, nelle prime quattro settimane di emergenza, da uno studio dell’Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo).
Esso ha segnalato ovviamente l’orientamento verso la Gdo con ricorso, ove possibile, ai negozi di vicinato: sia per muoversi il meno possibile come previsto dai decreti governativi, sia ritenendoli a ragione più “sicuri” di ambienti molto più promiscui come i super o ipermercati.
Una tendenza che si è accompagnata invece alla sostanziale e progressiva perdita di peso dei mercati rionali.
Questo ha determinato che spesso a rimanere senza accesso al mercato sono stati i produttori di piccola scala, le aziende agricole a conduzione familiare.
Tuttavia la loro difficoltà non si è accompagnata al calo della domanda laddove, nel pieno rispetto delle norme, gruppi di acquisto sono riusciti a mettersi in contatto con i produttori, così da far arrivare direttamente a casa prodotti della filiera agroalimentare a km zero o quasi.
Questo ci fa capire come per tante realtà produttive del nostro Paese, in particolare del Mezzogiorno, ora la sfida si complica ma può diventare opportunità affascinante.
Le nuove modalità dei consumi domestici obbligano le piccole e medie imprese a ripensare ai propri modelli di sviluppo, alla propria organizzazione, ai processi produttivi.
La rimodulazione dei canali distributivi, e non solo essa, impone cambiamenti radicali e l’improcrastinabile digitalizzazione delle imprese, cui andrà connessa un’operazione in grande stile dal punto di vista della comunicazione: sul Web non basterà più bazzicare di tanto in tanto Facebook, ma occorrerà piuttosto rivolgersi a sperimentati professionisti del digital marketing o a veri e propri giornalisti, per calibrare la propria immagine, consolidare la propria credibilità sul mercato e spingere adeguatamente il proprio marchio e prodotto.
Il ritardo delle piccole e medie imprese italiane in questo settore è imbarazzante: solo un terzo sono digitalizzate e solo una su sette (di quelle con più di 10 dipendenti) ha un fatturato significativo online.
Per non parlare dell’approssimazione con la quale si aderisce ai professionisti della comunicazione, spesso ragazzini improvvisati.
La rinnovata attenzione verso il cibo porta a un’inversione di tendenza, rispetto al distratto acquisto di una pizza o una “cineseria” da farsi recapitare tra le mura domestiche.
Avere a che fare con un reticolato assai stringente di norme inderogabili sta comportando una maggiore attenzione alla qualità delle “materie prime” da comprare: è come se il consumatore fosse stato costretto dalla cattività domestica a occuparsi in profondità di ciò che mangia, cominciandone a valutare pregi e difetti soprattutto in relazione agli effetti sul proprio stato di salute.
Ecco qui celarsi un’altra opportunità importante per tante realtà produttive che fanno della qualità lo stigma della propria offerta.
Si apre la sfida con un cambiamento non più rinviabile.
Sono da studiare il più scientificamente possibile tutti i fattori che mettano in risalto sia la bontà al gusto e l’aroma che le qualità dietetico-nutrizionali delle produzioni.
Ciò che mangiamo e la sua filiera sono tornati ad avere una centralità impensabile fino a pochi mesi fa, così che agricoltura e allevamenti di qualità potranno rivestire ruoli ancora più strategici nella nostra economia.
Nei mesi a venire sarà fondamentale custodire con cura questi insegnamenti e metterli a frutto, se non vogliamo scomparire, nel “piccolo” come nel “grande”, come produzioni di prestigio.
L’articolo è a firma di Micaela Grossi e Cecilia Sgherza della Società di consulenza nella comunicazione “Vis vivendi Com.it”.
Micaela Grossi è un Medico Veterinario, Specialista in “Alimentazione animale”, con Dottorato di Ricerca in “Scienza dell’Alimentazione e della Nutrizione” e Master in “Sicurezza Alimentare”.
Cecilia Sgherza è una giornalista professionista che ha lavorato per quotidiani (Il Sole 24 Ore e Il Giornale), periodici (Vie del Gusto; Wine Passion) e nelle istituzioni (Senato della Repubblica).