di Roberto Rubino
In un mondo continuamente attraversato da aspri contrasti, da guerre laceranti, da un terrorismo che colpisce luoghi pacifici e molto lontani dai focolai di guerra, da un populismo che accentua i problemi piuttosto che risolverli, trovare un argomento che trovi tutti d’accordo non capita spesso e non è nemmeno facile. Eppure in questi mesi un motivo di orgoglio ha accomunato gran parte dei paesi mediterranei: la richiesta inviata all’Unesco per il riconoscimento della transumanza come patrimonio culturale dell’umanità. Sui social un gran numero di persone ha plaudito all’iniziativa, i commenti favorevoli si sono sprecati: finalmente abbiamo fatto qualcosa di buono. In fondo stiamo ripercorrendo lo stesso iter attivato per la Dieta Mediterranea, ora patrimonio Unesco. Una gran bella soddisfazione per i popoli del Sud dell’Europa e per il Nord dell’Africa. Finalmente possiamo vantarci di qualcosa e poi la consacrazione dell’Unesco porta e porterà certamente un mare di turisti. Anzi, a pensarci bene, la transumanza ha motivazioni più solide per candidarsi come modello culturale (ed economico). La dieta mediterranea è un’invenzione di un americano, Ancel Keys, prima che lui arrivasse nel Cilento e a Creta tutti mangiavano quello che avevano a disposizione e nessuno si era accorto che quella dieta fosse miracolosa. Sono molti gli studiosi a dire che Ancel aveva bisogno di quella teoria per accreditarsi alla Casa Bianca e per fare carriera. Si parlava della longevità delle popolazioni del Cilento, ma a parte che non vi erano dati certi, comunque alcune popolazioni della Finlandia e del Giappone
erano molto più longeve senza conoscere o praticare la dieta mediterranea. E comunque, anche se fosse, l’attuale dieta mediterranea non è quella dei primi anni cinquanta del novecento. La qualità della dieta del mediterraneo è peggiorata molto perché la qualità di ogni singolo alimento è peggiorata. A quel tempo nessuno usava diserbanti, concimi, irrigazione. Oggi anche nelle aree più interne, chi coltiva patate non può fare a meno di usare il Randup, un potente disinfestante utilizzante per tenere a bada la Dorifera della patata. Il problema è che quel veleno si accumula nei suoli dove vi rimane per decine di anni. Anche le acque sono più inquinate rispetto agli anni cinquanta e poi la pesca non si fa più con le piccole barche che utilizzano reti o ami ma con paranze grandi e pesca al traino. Non a caso le statistiche sull’incidenza dei tumori in quelle aree sono quasi allarmanti o comunque non inferiori a quelle dei centri urbani, accreditati come molto inquinati. E i risultati stanno lì a dimostrarlo. Da quando è diventata patrimonio Unesco, la dieta mediterranea non ha certo contribuito a migliorare la dieta dei paesi mediterranei, tanto che la qualità dei singoli alimenti rimane sempre modesta, parliamo di cibi comunque provenienti da colture industriali, però fa tendenza, ha creato uno scatto di orgoglio localistico e comunque ha innescato qualche filone di turisti curiosi. È diventato il classico argomento da bar, tutti ne parlano, tutti si sentono all’altezza di disquisire di salute e cibo e solo in pochi non sanno di non sapere: i professionisti della dieta mediterranea. La transumanza invece è un’altra storia. La civiltà è nata con la pastorizia e la transumanza, almeno fino alla rivoluzione industriale, è stata il sistema di allevamento prevalente. Quando la produzione agricola era modesta e le macchine agricole non permettevano la raccolta dell’erba, al pastore non restava altro che inseguire l’erba man a mano che cresceva se voleva allevare animali. Dal momento che l’orografia di gran parte dei paesi mediterranei era tale da avere forti sbalzi altimetrici nell’ambito a volte di pochi chilometri, ecco che allora bastava spostarsi fra la montagna e la pianura per avere erba verde tutto l’anno. Ed è quello che hanno fatto i pastori per millenni. Ma questi spostamenti andavano regolamentati, occorreva che vi fosse erba a sufficienza durante il percorso per alimentare migliaia, a volte milioni di pecore. E poi bisognava che si fosse sicuri che i pascoli a monte e a valle fossero ben tenuti ed assegnati per tutto l’anno a ciascun allevatore. Ed è per questo che la transumanza è diventata presto un affare di Stato. Re, imperatori, feudatari hanno dovuto inventarsi un sistema per proteggere, e da cui trarre profitto, un modello produttivo che andava assumendo sempre più importanza. Nel 1155, il re di Sicilia Guglielmo I per regolare la transumanza, stabilisce nella sua Costituzione delle severe norme e accorda importanti privilegi di pascolo alle greggi degli Appennini. Via via che la transumanza guadagna importanza, i governi intervengono per controllarla e per trarne benefici fiscali. Prima Federico II, con l’istituzione della Dogana della Mena delle Pecore in Puglia, poi Giovanna II, che richiama in vigore la Costituzione e infine gli Aragonesi imprimono alla transumanza un enorme impulso a scapito dell’agricoltura. Il 1° agosto 1447, Alfonso I d’Aragona – che conosceva bene l’organizzazione della Casa de Ganaderos di Saragozza – con la sua celebre Prammatica sulla Dogana della Mena delle Pecore in Puglia disciplina tutta la materia. La transumanza diviene obbligatoria, si incrementano le terre al pascolo e al demanio esistente vengono aggiunte le terre di baroni e comunità, con riserva di diritto di pascolo in estate (cosiddetta “statonica”). Di conseguenza, tutti i pascoli, sia pubblici che privati, sono destinati agli ovini merino e in certi casi, anche agli ovini non merino. Nello Stato Pontificio, Pio V, con la Costituzione del 5 marzo 1567 e, successivamente, Sisto V, con la bolla del 18 dicembre 1585, dettano norme rigorose per ordinare il mercato e per tutelare gli interessi del settore. In cambio del pagamento della fida, la tassa sulle pecore, il pastore ha libero accesso sui pascoli e sui tratturi e può godere di una giurisdizione speciale, sganciata da quella ordinaria. Alla stregua di Roma e Foggia, anche Siena dispone di un tribunale doganale che estende le competenze anche nelle controversie civili e penali dei locati. In Spagna, la disponibilità delle pecore merinos, di origine probabilmente araba, la cui lana di qualità è molto richiesta dal mercato, spinge allevatori e sovrani a organizzare e istituzionalizzare la transumanza. Nel 1273 Alfonso di Castiglia, per sviluppare e al tempo stesso controllare il settore, crea la Mesta, compagnia che raggruppa tutti gli allevatori di pecore e da quel momento riprende vigore un’attività pastorale che, secondo Braudel: “travaglia l’economia iberica più delle olive, delle uve, del rame e persino dei tesori del Perù”. Klein – lo studioso tedesco che ha pubblicato (1921) il più famoso lavoro su questo argomento, la prima Mesta – riconosce agli allevatori spagnoli il merito di aver contribuito, con le loro tasse, a cacciare i Mori, ad apprestare la flotta per l’America e inoltre, a fornire al regno l’esperienza necessaria per il controllo dei commerci nel mondo. L’intervento centrale del re consente anche di attenuare le tendenze autonomistiche regionali e le pressioni dei feudatari. Sono però gli stessi allevatori a fare pressioni sul re per espellere i Mori e gli Ebrei e perché impedisca la coltivazione del grano e dei vigneti; la deforestazione della Spagna è attribuita per lo più alla loro necessità di pascoli. Ma questa è una lettura non nuova e molto di parte. È vero che gli animali, con il loro pascolamento, hanno contribuito a peggiorare le cotiche erbose, ma certamente non sono stati la causa principale del peggioramento dei terreni. La Spagna, dopo la conquista dell’America, aveva bisogno di molto legname per costruire la flotta, la famosa Invincibile Armada. I boschi del Nord venivano chiamati Los Monegros, scimmie, perché si diceva che questi animali potessero attraversarli senza scendere dagli alberi, ma la grande richiesta di legname per la flotta ne aveva determinato la scomparsa. Anche nel Sud della Francia gran parte dell’allevamento era organizzato sul modello transumante, però gli allevatori non erano favoriti dalla protezione reale e dovevano, di volta in volta, accordarsi con le Comunità della montagna, con i villaggi della valle e stilare “carte della pace” come nel Bearn, o traités de les passeries per i tratturi. Nello Stato Pontificio la situazione era molto simile a quella del Regno di Napoli. Pio V, con la Costituzione del 5 marzo 1567 e, in seguito, Sisto V con la bolla del 18 dicembre 1585, dettarono norme rigorose per ordinare il mercato e per tutelare gli interessi del settore. In Toscana la transumanza aveva come epicentro Siena e la Maremma. Queste vaste zone, poco popolate e ricche di pascoli, da sempre avevano attratto greggi transumanti che si spostavano dalle montagne dell’Appennino, alle colline maremmane. Già a metà del Duecento Siena assoggettava queste terre e incominciava a regolamentare il movimento di uomini e animali. Il primo vero e proprio statuto della Dogana dei Paschi Maremmani emanato dalla Repubblica di Siena è del 1419. Da quel momento il pascolo, chiunque ne sia il proprietario terreno e qualunque sia la sua destinazione, è di pertinenza dello Stato. La nascita, nel 1472, del Monte dei Paschi di Siena è il primo, importante effetto delle ingenti risorse economiche che affluiscono nelle casse dello Stato senese. La transumanza raggiunge il suo culmine alla fine del Cinquecento, quando ancora milioni di pecore, in Italia come in Spagna, risalgono i monti con il favore dei sovrani e l’appoggio della popolazione. Successivamente, in tutta Europa, l’incremento demografico lentamente riprende, per assumere ritmi elevati alla fine del Settecento in parte a causa della scomparsa delle grandi pestilenze che falcidiavano le popolazioni e in parte all’arrivo prepotente della rivoluzione industriale. Aumenta allora la richiesta di grano e aumentano le pressioni degli agricoltori per mettere a coltivazione le terre. Ma la situazione resta inalterata fino alla fine del secolo XVIII, malgrado le proteste dei contadini e gli avvertimenti di riformatori illustri, come G.M. Galanti, G. Filangieri e A. Genovesi, che vedevano nell’allevamento transumante un ostacolo allo sviluppo del Sud. Ma è soprattutto il Galanti nella Nuova descrizione geografica e politica delle Sicilie, di ritorno da Parigi dove aveva assimilato le idee fisiocratiche di Quesnay – secondo le quali la proprietà libera fosse sempre da preferirsi a una condizione incerta e precaria –, a scrivere le pagine più feroci nei confronti della transumanza: “che non conviene che a popoli erranti e poco inciviliti. Consegnando le migliori terre del suo regno al pascolo, si studiava di perpetuare il desertamento in cui l’aveva trovato e che più sano consiglio sarebbe stato di ristabilirvi al tempo stesso la popolazione, come cosa più preziosa, e di rendervi, come in Inghilterra, il cittadino pastore e agricoltore insieme”. La situazione comincia inizialmente a cambiare con i regolamenti della Prammatica del 23 febbraio 1792, con la quale Ferdinando IV permette alle diverse università di applicare delle quote alle terre del demanio sottomesse a una utilizzazione collettiva. Ma la transumanza ha i giorni contati. Con la Rivoluzione francese e la politica di espansione di Napoleone, i francesi conquistano Napoli e subito emanano la legge di eversione della feudalità (1806), con la quale viene abolito il feudalesimo e la Dogana della Mena delle Pecore. Curioso paradosso della storia: la transumanza era un sistema anti-feudale per antonomasia, perché pagava le tasse su un bene mobile e direttamente al re. La reazione e la restaurazione dei Borboni, nel 1815, riportarono le greggi nei vecchi pascoli. Ma ormai il declino era inarrestabile, favorito dalle pressioni degli agricoltori per mettere a colture le terre sode e dall’arrivo su mercati europei delle lane australiane e neozelandesi. Ma l’abolizione degli usi civici, l’eversione della feudalità e della manomorta – che secondo il programma degli economisti napoletani, accettato dal re, avrebbe dovuto permettere, grazie alla messa a coltura dei pascoli, l’estensione delle colture – ebbero come unica conseguenza l’impoverimento ulteriore delle popolazioni rurali, già miserabili. Nonostante le intenzioni del legislatore, la situazione non cambiò fino alla legge Serpieri. L’eversione della feudalità e degli ordini ecclesiastici proprietari non portò profitto se non agli antichi feudatari e ai ricchi borghesi che poterono acquistare le terre messe in vendita dallo Stato. In Spagna la situazione aveva avuto la stessa evoluzione di quella del Regno di Napoli. Le lotte fra pastori e contadini erano frequenti, ma la Mesta mantenne un forte potere fino a Carlo III, che arrivava da Napoli e che, quindi, ben conosceva queste diatribe. All’arrivo in Spagna, il sovrano si mostrò subito ostile alla Mesta, trovando un potente supporto in una classe intellettuale, molto influente a corte, fra cui Capomanes, che si schierò contro la transumanza per le stesse motivazioni dei colleghi napoletani: la crescita della popolazione e il liberalismo economico. Nel 1836 la Mesta fu definitivamente chiusa. In Toscana il declino iniziava durante il periodo della Reggenza lorenese. Con Pietro Leopoldo si avviavano le riforme e presero forza i contadini che intendevano mettere a coltura la terra. Il granduca, l’11 aprile 1778, emana un motuproprio con il quale abolisce la Dogana dei Paschi. Indubbiamente la transumanza era andata al di là dei tempi storici che ne avevano determinato l’avvio e lo sviluppo. La popolazione aumentava più velocemente delle innovazioni in agricoltura e le esigenze alimentari, sempre in crescita, potevano essere soddisfatte solo con l’incremento delle superfici coltivate. Una cosa erano le giuste esigenze dell’agricoltura e un’altra l’avversione verso il sistema transumante. In tempi di grande immobilismo, soprattutto e specialmente in quelle aree dove si praticava la transumanza, il movimento di uomini e animali che, non bisogna dimenticarlo, spesso avveniva tra Stati non sempre in pace, era un elemento che potremmo definire di ‘resistenza feudale’, di scambio di cultura fra popolazioni – che spesso avevano lingue e dialetti diversi – e una formidabile culla di cultura commerciale (altro che ‘barbarie’, come amava definirla il Galanti!). Il riconoscere i diritti dell’agricoltura non doveva quindi avvenire a spese della transumanza, che andava sì ridimensionata, ma ancora guidata verso un riassetto dell’intero settore. Invece i pastori divennero i nemici, gli incolti, ai margini della società. Venne smantellato un sistema, sostituito con modelli più intensivi, importati da territori più sviluppati. E così per decenni alcune aree hanno dovuto subire il disfacimento dei loro modelli, ritenuti arretrati, ed hanno dovuto rimpiazzarli con nuovi sistemi produttivi, tutti da inventare. Come esempio sintomatico cito quanto scrive Salerno, il responsabile della cattedra ambulante di Lagonegro, nel 1892: “furono gli dei maggiori dell’industria casearia che, riuniti in giuria all’Esposizione universale di Parigi del 1878, scagliarono tutti i fulmini contro quel prodotto [il Caciocavallo podolico, n.d.r.], che definirono: il segnacolo della barbarie delle regioni meridionali. Metodo di fabbricazione dilapidatore, perché getta il grasso del latte nelle acque bollenti del trattamento. Manipolazione lorda e schifosa, perché affidata alle mani di un pastore sudante”. E pensare che ancora oggi il Caciocavallo podolico viene prodotto allo stesso modo del secolo scorso e, per questo, è considerato uno dei formaggi più pregiati. Una lettura diversa dello stesso fenomeno non solo dà risultati diversi, ma pone prospettive nuove allo sviluppo e alla progettualità.
Ma è dopo la seconda guerra mondiale che avviene il collasso. La lana ormai è un prodotto inutile, anzi molti non sanno come smaltirlo. L’agricoltura va decisamente verso la quantità e la parola d’ordine è produrre a costi bassi, in maniera standardizzata e a rischio possibilmente zero. Il settore cerca di resistere sostituendo la lana con il latte, tutte le pecore diventano buone produttrici di latte ed i formaggi sono di qualità. Ma le condizioni delle strutture legate alla transumanza ed alla pastorizia in generale sono minime e vecchie. I tratturi vengono abbandonati e, pur essendo un bene inalienabile, vengono abusivamente privatizzati. Il transito degli animali viene reso difficile da un groviglio di leggi e decreti che scoraggiano qualsiasi ben intenzionato. Fare transumanza oggi è un percorso ad ostacoli. Tanto che è sfociato, quasi sempre, nel solito folclore come una passeggiata fuori porta. Le leggi sull’igiene hanno dato il colpo di grazia ad un sistema ormai precario. L’acqua deve essere potabile, i locali lindi come una clinica, un atteggiamento vessatorio dei servizi sanitari e mai, quasi mai incoraggiante. Per la verità quasi tutte le regioni del Nord hanno dato una mano, hanno rimodernato gli alpeggi, hanno regolarizzato e messo a norma i caseifici. Ma l’approccio culturale è stato ed è sbagliato. Gli interventi fatti sono considerati come un atto di attenzione verso un sistema di produzione che fa” un lavoro molto difficile e in condizioni precarie” e non invece come un atto dovuto. I pascoli demaniali sono collettivi e non della pubblica amministrazione, i pastori pagano la fida o l’affitto e l’ ente pubblico che li gestisce deve, è costretto a mettere a norma a sue spese quanto concesso al pastore. Quindi, quello che fanno apparire come un atto di buona volontà è solo ignoranza della storia delle nostre montagne, degli usi civici, delle leggi che hanno governato queste terre per millenni. Non solo. Anni fa ero ad un convegno sull’altipiano di Asiago. Si parlava di formaggi e di pastorizia e c’era anche Mario Rigoni Stern. Un esperto di marketing di Milano lanciò una proposta che pensava stimolante per il settore. In quel tempo c’era un detersivo che nella pubblicità dichiarava che destinava ai poveri dell’Africa una parte del detersivo venduto. La stessa cosa proponeva per i formaggi. I produttori dovevano destinare ai poveri della montagna una parte del ricavato. A me sembrò subito ridicola, quasi offensiva, ma solo a me. Perché a pensarci bene questa proposta è figlia della cultura dominante: la pastorizia sta scomparendo, i pastori fanno un mestiere difficile, li dobbiamo aiutare. Ma ritornando a quelle regioni che qualcosa hanno fatto, seppur con spirito, verrebbe da dire, feudale, nello stesso momento in cui mettevano a norma un alpeggio, facevano pressioni affinché il formaggio estivo venisse venduto allo stesso prezzo di quello invernale. Gli stessi Consorzi di Tutela dei formaggi DOP delle Alpi, quasi tutti, per anni hanno impedito una differenziazione del prezzo. Basti guardare cosa è successo al Bitto: quelli della montagna sono dovuti uscire dal Consorzio e non possono nemmeno chiamarlo Bitto, perché pretendono di fare un grande formaggio. Ad Asiago, a quell’esperto di marketing risposi che per salvare la pastorizia e la transumanza bastava solo” dare a ciascuno il suo” riconoscere a quei prodotti il giusto prezzo, perché sono prodotti il cui valore è enorme.
Quale è il livello qualitativo dei prodotti della pastorizia? Ormai molto è stato dimostrato anche se molto resta ancora da studiare. Oggi sappiamo quali molecole analizzare per cogliere e misurare la qualità aromatica e nutrizionale del latte e dei formaggi e soprattutto sappiamo quali fattori li determinano. Ciò che fa la differenza è la quantità di erba che l’animale mangia e il numero di erbe diverse che entrano nella dieta. Quindi, se questo è, allora un animale transumante produce in assoluto il miglior latte e il miglior formaggio, perché mangia tutto l’anno erba verde e tante essenze diverse. C’è una misura di questa differenza? È possibile farla? Certo che sì! Disponiamo di indici sintetici che ci permettono di cogliere la distanza fra il valore minimo e quello massimo, anche se una cosa è la misura e un’altra è la relazione con un possibile prezzo. E questo perché nella formazione del prezzo entrano fattori a volte soggettivi o legati al racconto, all’aspettativa. È comune se prendiamo indici come il rapporto omega6/omega3, il Grado di Protezione Antiossidante, il CLA, il numero totale di note odorose, tale distanza può essere almeno di 20 volte. Tanto per intenderci, se lo stesso formaggio, prodotto dallo stesso allevatore, con le stesse vacche, in inverno, in stalla vale 10 euro, quello estivo ne varrebbe 200. Invece il sistema, lo stesso che sta gioendo e brindando per la richiesta all’Unesco, ha preteso e imposto che i due formaggi si dovessero vendere allo stesso prezzo. Almeno quelli della dieta mediterranea non hanno fatto niente per distruggere la vecchia dieta e forse contribuiscono a dare un barlume di pretesa nobiltà a cibi che nobili non lo sono più. Insomma: miseria e nobiltà. Invece questi della transumanza, a loro insaputa, hanno fatto di tutto per distruggerla e ora si preparano ad organizzare il comitato festa permanente, perché la transumanza diventerà solo folclore. Ammesso che resterà ancora qualcuno e qualcosa. Invece bastava avere il palato fine, avere la capacità di capire la grande qualità che questi formaggi e questa carne esprimono e poi felicemente pagar cari questi prodotti. Ma non sanno di non sapere.