LA VITTORIA DI PIRRO DEL GRANO ITALIANO

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Grano italiano

All’approssimarsi del Natale la pubblicità televisiva si rianima con i prodotti dell’agroalimentare: panettoni, formaggi e, soprattutto, pasta. Succede tutti gli anni ma quest’anno il messaggio è completamente cambiato, c’è la corsa all’italianità delle materie prime. In testa l’industria della pasta.

Le motivazioni sono note, le organizzazioni professionali degli agricoltori, Coldiretti in testa, di fronte ad una crisi del settore primario che non riescono a gestire, hanno sperato di trovare una soluzione nel nazionalismo, che come si vede non è solo una prerogativa della politica.

Alla fine, hanno vinto e così oggi l’industria, non solo italiana, deve indicare in etichetta l’origine della materia prima.

Detto fatto.

Se basta questo messaggio per acquisire fette anche piccole di mercato, perché non aderire, in fondo l’’industria deve far quadrare i bilanci. In questi ultimi anni il settore che più ha fatto pressione è stato quello cerealicolo.

Il prezzo del grano viene ritenuto sempre troppo basso, perché le aziende hanno facile accesso ad un mercato internazionale che propone un’offerta variegata per prezzo e qualità.

Bene, la pubblicità di questi giorni ci annuncia che il problema è risolto, gran parte delle aziende italiane, con in testa la Barilla, pubblicizzano che la loro pasta è fatta con il grano italiano.

Ma noi siamo il paese dove il dietrologismo è di moda, cui prodest, a chi giova e a chi danneggia?

In primis dovrebbe giovare ai produttori.

Se l’industria compra il loro grano perché la domanda è in costante aumento, il minimo che ci si potrebbe aspettare è che il prezzo aumenti.

Ho provato a fare qualche telefonata a persone informate dei fatti. Anche se per la verità non ce n’era bisogno e non solo perché di grano italiano invenduto non ce n’è mai stato, ma soprattutto perché la pasta con grano italiano, della stessa azienda, non costa di più di quella prodotta con miscele di grano straniero.

Quindi, non si capisce perché il prezzo dovrebbe aumentare.

Comunque, le informazioni sono che il prezzo è sempre lo stesso, o meglio, il meccanismo di gestione e controllo del prezzo è rimasto immutato.

Per chi non è addentro, il prezzo nazionale è regolato sul prezzo mondiale, ma poi ci sono le borse regionali o provinciali presso le camere di commercio. In queste borse l’industria la fa da padrona, anche se la presenza delle organizzazioni professionali è forte.

E comunque tutti accettano che il prezzo sia fisso e uguale per tutti i produttori. In sostanza, secondo i produttori di grano e l’industria che lo lavora, il grano è tutto uguale e il prezzo deve essere unico e garantito a tutti.

Guai a parlare di qualità, anche perché per qualità si intende solo la proteina, parametro utile in sede tecnologica ma che non ha alcuna relazione con il flavour della pasta e del pane.

E in fondo basta guardare i prezzi della pasta: quella prodotta con grano italiano costa meno, a volte molto meno di quella prodotta con grano non italiano.

Quindi per gli agricoltori la situazione non è cambiata.

Ma l’obbligo dell’origine è stato richiesto a gran voce anche da una parte dei consumatori. Costoro ne hanno tratto beneficio?

Quelli che non danno importanza al livello qualitativo e nutrizionale ma solo all’orgoglio identitario, certo che ne saranno contenti.

Anche se appare difficile pensare che possa esistere una tipologia dii consumatore che riesca a comprare prodotti alimentari e non interamente lavorati in Italia.

Chi invece sperava di mangiare meglio non credo che riesca a trovare una risposta, perché o ammettiamo che tutto il grano italiano sia uguale e migliore di quello straniero, ma un’ipotesi del genere è impensabile, oppure al massimo possiamo dire che le probabilità che la pasta o il pane siano migliorati sono forse più elevate, anche se non sappiamo perché.

Faccio un esempio.

Quest’anno, per motivi climatici, la produzione di grano duro della provincia di Foggia è crollata sotto i 20 q/ha mentre nelle Marche il raccolto è stato abbondante, intorno ai 50/ha.

I produttori del foggiano speravano in un aumento del prezzo, vista la forte riduzione della produzione, ma il prezzo è rimasto lo stesso perché è arrivata la notizia dalle Marche che di grano ce ne era a sufficienza.

Ma nessuno si è posto il problema della qualità. Quest’anno il grano foggiano, che ha avuto rese anche di 10q/ha ha lo stesso livello qualitativo del grano marchigiano?

Secondo i produttori e l’industria, certo che sì! Ma è possibile?

Possibile che a nessuno venga in mente di prendere i due grani, molirli allo stesso mulino, portare la farina al fornaio e al pastaio e degustare i due pani e le due paste?

Devono essere per forza diversi, ma il mito della caverna di Platone è sempre lì a ricordarci che guai a cambiare idea.  E così nemmeno i consumatori ne hanno tratto beneficio.

Il paradosso è che, con queste disposizioni, si voleva mettere con le spalle al muro l’industria.

Invece chi ci guadagnerà sarà proprio l’industria, sia perché conquisterà nuove fasce di mercato e sia perché, molto probabilmente, migliorerà la qualità del suo prodotto anche se non ne saprà spiegare le motivazioni.

Chi invece ci perde?

La conoscenza, la cultura gastronomica fanno un ulteriore passo indietro.

Siamo il paese della pasta, abbiamo una industria floridissima, diverse aree del paese coltivano un grano probabilmente di grande qualità, ma ci battiamo affinché il prezzo sia unico per tutti e, soprattutto, continuiamo a parlare di proteina senza porci mai il problema del flavour, del gusto e dell’aroma della pasta e del pane.

E dal momento che ignoriamo parametri e fattori che determinano il livello qualitativo, inseguiamo e inventiamo nemici inesistenti.