LA ZOOTECNIA INTENSIVA È NATA PER PRODURRE QUANTITA’!

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allevamenti intensivi

Se vogliamo ridurne l’impatto e l’espansione dobbiamo pagare il latte, la carne e le uova in relazione alla qualità. È quanto ci scrive F. Tiezzi, prof. all’Università del Nord Carolina, un genetista molto attento alle dinamiche della zootecnia italiana e alle strategie per modelli più virtuosi.

di Francesco Tiezzi

Oggi ho aperto il blog di Roberto e ho letto il suo intervento riguardo ai molteplici servizi giornalistici che il popolo italiano avrebbe avuto modo di vedere per Pasqua e Pasquetta.

Ad una prima lettura, non capivo se alcune parti fossero uno scherzo.

Si parlava di manicheismo, zebre e bresaole. Sfuggendomi il collegamento (soprattutto tra le zebre e le bresaole) sono subito andato a cercare il servizio di Report e l’ho guardato tutto, per ben due volte.

Roberto ha già scritto un valido articolo sulla questione, ci sarebbe poco da aggiungere. Alla fine, sono d’accordo nel dire che non è tanto un problema di allevamento intensivo o meno, ma di prezzo del prodotto sulla base della qualità.

Tuttavia, vorrei condividere la mia visione sul come si sia arrivati a questo punto.

Si parla sempre di allevamenti intensivi, se ne mostrano immagini e se ne spiegano i danni.

Ma che significa allevamento intensivo? A che cosa si contrappone? Da dove nasce?

Iniziamo con il definire che cos’è un allevamento intensivo.

L’allevamento intensivo è quello che si fonda sull’alto rapporto lavorativo/terra o capitale/terra.

In poche parole, in un terreno agricolo piuttosto ristretto si investe molto capitale per creare strutture e molto lavoro per portare avanti il processo.

Tali allevamenti sono, o erano, ad alta intensità di lavoro, ovvero ci voleva un ingente e costante intervento umano per alimentare e controllare gli animali.

L’alimentazione è del tutto controllata tanto che si prevede cosa l’animale mangerà riuscendo a quantificare anche i micro-elementi e la riproduzione è del tutto controllata, con sincronizzazioni del ciclo estrale e inseminazione artificiale.

Nel mondo occidentale tale apporto massiccio di lavoro è stato soppiantato dalla tecnologia (in senso lato) tanto che, come si sente dire nel reportage, basta una persona per 1000 maiali.

Un allevamento che non è intensivo è estensivo: ovvero quando sono bassi gli apporti di capitale o lavoro sull’unità di terra.

Per esempio, l’allevamento di bovini è estensivo quando pochi capi siano lasciati liberi di circolare su un ampio appezzamento di terreno e non ci sia controllo dell’alimentazione e della riproduzione.

Ovvero gli animali mangiano quello che trovano e gli piace. E il toro fa il suo mestiere.

Da dove arriva l’allevamento intensivo?

Nei primi decenni del 1900, negli Stati Uniti, due allevatori hanno fatto delle rilevanti scoperte.

Una massaia della Georgia, che produceva principalmente uova da vendere al negozio del paese e d’estate vendeva anche i polli in eccesso, scoprì che se avesse tenuto i pollastri chiusi in una stanza e alimentati a mais, questi sarebbero cresciuti più velocemente.

C’era da fare i conti con i maggiori costi dovuti alla granella di mais, ma la produzione nel sud degli Stati Uniti non scarseggiava e comunque il maggiore ricavo copriva il costo.

Più o meno negli stessi anni, un insegnante del North Carolina decise di investire i soldi del padre (coltivatore di tabacco) e della moglie in un piccolo mangimificio.

A quel tempo, non c’erano trebbiatrici e gran parte del costo della lavorazione del mais era dovuto alla sgranatura.

Anche lui fece una scoperta importante: se macinava l’intera pannocchia e vendeva a prezzo più basso il mangime, riusciva comunque ad avere un margine più alto.

Se poi lo avesse somministrato ai maiali avrebbe risparmiato sui costi di produzione del mangime e i maiali sarebbero cresciuti più velocemente che se alimentati con scarti o spigolando.

Iniziò tenendo qualche decina di maiali all’ingrasso dietro al mangimificio per consumare il mangime prodotto in eccesso, ma il business andava bene e ad un certo punto iniziò a lavorare solamente per alimentare i propri maiali.

Si capisce di già come, almeno i quei contesti, il problema non fosse l’approvvigionamento di materia prima ma il carico di lavoro: si doveva produrre di più, più velocemente e con meno apporto di ore di lavoro.

Poi, negli anni 70, lo stesso allevatore del North Carolina si rese conto che non poteva continuare a comprare i maiali da ingrassare ma doveva iniziare ad avere delle scrofe.

Questo era un problema, per produrre tutti i magroncelli di cui aveva bisogno avrebbe dovuto avere molte scrofe, e per questo doveva iniziare a (con)tenerle in delle strutture.

La necessità di costruire stalle dove i maiali venivano rinchiusi nasceva proprio da questo, ovvero il fatto di dover creare un ciclo di riproduzione controllato.

Allora iniziò a costruire e a comprare i primi maiali che uscivano dai programmi di miglioramento genetico, orientati a quel tempo a diminuire la quantità di grasso nella carcassa.

Il secondo passo, quindi, era quello di ‘controllare’ il ciclo produttivo-riproduttivo degli animali. Ed è qui che è nato l’allevamento ‘al chiuso’.

In questo contesto, l’allevatore del North Carolina si rese presto conto di una cosa: man mano che la sua azienda cresceva di dimensioni e di capi, migliorava nell’efficienza.

Gli impiegati imparavano più velocemente il mestiere e diventavano più veloci, le operazioni venivano pianificate e si risparmiava di personale. E il profitto aumentava.

Il terzo passo è stato quindi quello di controllare il lavoro, non in senso di sorveglianza ma di pianificazione delle mansioni giornaliere.

Se ne evince che il fulcro del sistema che aveva creato non fosse il profitto, ma il controllo.

allevamento intensivoL’allevatore controllava l’alimentazione, controllava la riproduzione, controllava le mansioni dei lavoratori.

Il controllo si attuava grazie all’ingente apporto di capitale e di lavoro rispetto all’unità di terra. Tra l’altro, di terra (agricola) probabilmente non ce n’era visto che si trattava di un mangimificio.

Ecco creato l’allevamento intensivo: di qui era una strada in discesa, c’era solo da migliorarlo. Ovvero renderlo più efficiente.

Ma per diventare più efficiente doveva avere un minore apporto di capitale e di lavoro per aumentare il profitto.

Non è un controsenso allora? Non si basava tutto sul profitto e sul capitale?

No, perché ormai il sistema era creato, e si poteva aumentare l’efficienza diminuendo lavoro e capitale ma aumentando il livello di controllo sulla vita dell’animale.

Si potrebbe proporre una diversa definizione di allevamento intensivo, ovvero è quella tipologia di allevamento che si basa sul controllo dell’alimentazione e della riproduzione, principalmente.

Con il controllo arriva anche la semplificazione: i maiali non mangiavano più la dieta variopinta da tutto quello che potevano trovare. Mangiavano mais. Immagino che la qualità organolettica sia stata perciò compromessa, ma immagino anche che non fosse neanche troppo un problema in quel contesto.

Di conseguenza, sembra che l’allevamento intensivo non possa produrre qualità.

Un sistema estremamente semplificato, controllato, ridotto ai minimi termini può possedere i requisiti di qualità? Un maiale o un bovino all’ingrasso che mangiano esclusivamente mais, posso produrre carni di qualità?

Non lo so.

Quello che so, è che tali allevamenti saranno molto efficienti nel produrre carne o latte o uova. O meglio proteine animali, termine sempre più usato che mostra come i prodotti elencati valgano solo come agglomerato di proteine e catene di amminoacidi, quasi come se le si producesse in laboratorio.

E come si fa a incentivare un sistema che produce proteine, invece che prodotti di qualità?

Facile, si paga a quantità, non si paga a qualità.

Immaginiamoci che l’allevatore del North Carolina avesse avuto in vicino, che invece che chiudere i maiali nella stalla li avesse lasciati all’aperto e invece che alimentarli a mais li avesse lasciati pascolare nei boschi e spigolare nei campi, nutrendosi quindi di una dieta composta da decine di specie, sia vegetali che animali.

Un metodo di pagamento a quantità avrebbe premiato l’allevamento intensivo, per minori costi rispetto alla quantità prodotta.

Ecco che l’allevamento all’aperto scompariva e quello intensivo prendeva spazio.

Quindi credo tutto si riduca a un semplice problema: il sistema di pagamento non premia la qualità.