Solo per confermare, dunque, che il latte non è soltanto un liquido bianco, ma dirlo dalle latitudini di Puglia, patria del formaggio a pasta filata (mozzarella e scamorze in testa), risulta quasi come la scoperta dell’acqua calda … e infatti così non è!
Quando ci siamo messi d’impegno ad analizzare il profilo aromatico dei latti e dei formaggi fatti dai diversi tipi di latte, e poi ci siamo soffermati su quei formaggi ottenuti dal latte di vacche felici, ovviamente ci siamo accorti subito che quel prodotto raccontava storie differenti rispetto a quelle dei latto-derivati, (preferisco chiamarli cosi per non parlarne male), reperibili comunemente nella maggior parte dei caseifici regionali e nella Grande Distribuzione Organizzata.
Storie, cioè, fatte di ginnastica funzionale dei soggetti allevati, di benessere animale, di tecniche di lavorazione che aborrono l’uso dell’acido citrico, di locali di affinamento dove lattobacilli e saccaromiceti brulicano briosi sulle pareti della grotta dove i formaggi vengono affinati e, ancor prima, quali componenti della flora nativa, quella cioè che segue il latte dalla sua eiezione mammaria, fino alla caseificazione, naturalmente questa, al riparo da elevate temperature (latte crudo, non pastorizzato, per poterne conservare vitalità ed impronta aromatica).
Ora il pensiero risulta tanto più efficace quanto provocatorio: perché le mozzarelle hanno tutte lo stesso sapore da Lesina a Santa Maria di Leuca? Da Lagonegro a Matera? Da Andria a Brindisi?
Ecco che ci soccorre il pensiero critico …
Il latte è omologato perché gli animali non possono scegliere cosa mangiare, sono in stalla, relegati al ruolo di bio trasformatori di derrate alimentari zootecniche, che, quando va bene, sono costituite da mangimi con un po’ di fieno, la cui conduzione in regime di allevamento condizionato li condanna al rango di animaloidi produttori di simil latte e simil carne.
Qui la diversità vegetale che plasma prati e pascoli è una pura chimera, ci si rassegna ormai ” a ciò che passa il convento” e anche alle tecniche di lavorazione pseudo artigianali (anche se il vezzo dei caseifici è di richiamarsi alla lavorazione artigianale), che ricorrono all’uso dell’acido citrico quale acceleratore di fermentazioni dello zucchero del latte, il lattosio (come il lievito di birra al posto del lievito madre del pane) e di sostanze sbiancanti, come il perossido d’idrogeno, per rendere bianchi i latticini che naturalmente e logicamente ingialliscono nel tempo.
Questa mozzarella, queste burrate, resteranno inevitabilmente dolciastre in virtù della marcata presenza di lattosio non trasformato, anziché percepirne le freschezze acidule che riscontriamo, invece, nelle mozzarelle di bufala o anche nelle mozzarelle vaccine se lavorate con siero innesto, davvero queste artigianali.
Siamo quello che gli animali mangiano e quello che i casari decidono di farci mangiare.
Troviamo che sia questa la interpretazione di un guasto nel sistema produttivo “latte” che, se da un lato ha addomesticato al potere dell’industria quantità di animali mansueti, soggiogate al punto di durare in vita solo 3/4 anni per poi essere “rottamate” e macellate senza aver visto mezzo metro quadrato verde nel corso della loro umile esistenza, dall’altro vede giacenze di “ottimo” parmigiano reggiano e di grana padano che il Ministro di turno è costretto a togliere dal mercato, acquistandolo dai consorzi e cedendolo gratuitamente al resto del mondo, per mantenere l’economia di questi strani allevamenti intensivi (occorrono 4 litri di latte per acquistare un litro di gasolio agricolo). A cosa serve spingere questi animali a iper produzioni, con la genetica e le super razioni a base di mangimi, se poi non si riesce a venderne il prodotto?
Questa è la “pornografia” di una zootecnia intossicata, mentre la qualità “relativa” la suggerisce la legge, misurabile secondo lo specchietto di seguito riportato che indica i tenori massimi di alcuni valori analitici per cellule batteriche e cellule somatiche, che ci parlano più di una qualità industriale che di una vera “Alta Qualità”
≤ 400 000 (*)
Di questo si caricherà la comunità scientifica prima di proclamare salvifiche ricette orientate alla modifica dello stile di vita ed alimentare, senza purtroppo considerare che non si può affermare alcunchè se non introducendo un nuovo parametro definitivo ed assoluto, vero tracciante: la qualità nutrizionale del latte.
Un obiettivo necessario è quello di realizzare una ulteriore comprensione e di trasferire consapevolezza ed informazione reale dei processi che sottendono alla produzione agricola di questo “nuovo” vecchio e familiare latte, prodotto cioè nel rispetto della biodiversità e della variazione stagionale dei pascoli, del germoplasma mediterraneo autoctono e del benessere animale quali traccianti di qualità, sicurezza alimentare e salute ambientale, concetti informativi che dovranno condurre definitivamente il consumatore a riconsiderare la buzzonaglia degli spot pubblicitari e anche la recentissima campagna a favore del consumo di latte fresco italiano .
Non che quest’ultima sia una cattiva idea, ma certamente non aiuta a far comprendere, a chi il latte lo consuma davvero, che ne esistono di varie fasce di qualità, tutte figlie del sistema produttivo, non delle razze, non dei marchi, non delle DOP, non dei numeri di cellule somatiche e batteriche, ma solo di ciò che gli animali da latte mangiano, respirano e bevono.
Non ringrazieremo mai abbastanza il Prof. Roberto Rubino (Presidente Anfosc), per aver avuto la lungimiranza di parlare per primo di Latte Nobile , la Professoressa Laura Di Renzo (Istituto di Nutrizione Clinica Policlinico Tor Vergata), che ne statuisce, attraverso la ricerca sul Nutrient Analisiys of Critical Ccontrol Point, il valore nutrizionale seguendo un tracciante bio marcatore in umana, per aver aperto un universo agli occhi di chi, d’ora in poi, potrà solo decidere se restare un masticatore o diventare un consumatore consapevole.
A loro saranno destinati i CLA, il betacarotene, i flavonoidi e tutti i terpeni che rendono differente il latte di vacche felici ed i suoi derivati, evitando alle razze bovine che lo producono il rischio di una vita non vita, fatta di insilati di mais, panelli di semi oleosi scarto della lavorazione degli olii di semi e fieno ammuffito, fatta di produzione di latte-non-latte, dove finalmente troveremo le sostanze dotate di potere antiossidante e nutrizionale, espressione diretta del sistema di allevamento naturale.
Sembra strano come nel 2016, persino dopo la “grandeur onanistica” di EXPO 2015, ci sia bisogno di rimarcare, ricordandolo agli italiani, che le vacche sono animali erbivori e che le vitamine colorano il formaggio di giallo.