È ormai diventato un luogo comune il fatto che lo scandalo del vino al metanolo abbia determinato le condizioni per una rinascita dell’enogastronomia italiana.
Nel 1986, alcune morti sospette nel tarantino e la scoperta della colossale frode a base di metanolo spinsero il Ministero dell’Agricoltura e Foresta a fondare l’Istituto di Repressioni e Frodi, una struttura che, in pochi anni, mise le basi per garantire ai consumatori un efficace sistema di controllo e di repressioni delle frodi alimentari.
Ne parla in maniera quasi romanzesca Gianfranco Scarfone nel libro “Frodi, confessioni di un repressore”. Questo argomento non mi appassiona, ho comprato il libro per curiosità, per capire come era stato organizzato e come ha lavorato il Servizio Repressioni e anche perché anche io ho prestato servizio nella ricerca scientifica che faceva capo allo stesso Ministero, e quindi, non volevo farne la recensione.
Ma ne parlo perché trovo questo libro paradigmatico, rappresenta e sintetizza bene il pensiero dominante che circola intorno alla gastronomia e alla cultura del cibo. Oggi si parla di agricoltura se c’è uno scandalo, del biologico se hanno pescato qualcuno che truffa, del latte se gli allevatori scioperano invitando a mangiare italiano, della mucca pazza, del tonno al mercurio. Le frodi, appunto. E poi c’è la nutraceutica.
Leggiamo le etichette solo per capire se quel prodotto ci possa far male, anche se le etichette non dicono praticamente alcunché, la nutraceutica è ormai la parola chiave per avere finanziamenti per la ricerca, ci sono cibi miracolosi ed altri pericolosi, ma tutti, beninteso, sono uguali nell’ambito della stessa tipologia: la carne rossa fa male, quella bianca invece no!.
E il flavour, il sapore, il piacere di degustare quel particolare formaggio o cipolla o mela?
Tutti discettano, in fondo abbiamo la gastronomia più famosa al mondo, e però il prezzo delle materie prime è uguale per tutti e sappiamo poco o niente su quali fattori determinano il livello qualitativo del cibo. Ecco, questo libro mi ha ricordato tutto questo. Anche se con qualche difficoltà, perché ho fatto un po’ di fatica a leggerlo. Capisco il fai date dell’editoria, così tutti possono dire la propria, ma farsi dare una mano nel correggere le bozze forse non sarebbe stato male.
Anche il libro lo possiamo dividere in tre parti: le frodi, le etichette e il livello qualitativo. Sulle frodi la riflessione è solida, perché raccontata da chi non solo l’ha vissuta ma anche avviata e messa in piedi.
Sono stati anni duri, però nel giro di pochi anni un esercito di circa 1000 tecnici specializzati ha girato l’Italia per individuare le possibili frodi. E i risultati si sono visti: numerosi stabilimenti chiusi e molti arresti.
Le frodi riguardavano soprattutto l’olio, il vino, il latte, la pasta, i succhi. Un gran bel lavoro che ha dato i suoi frutti ed è grazie a loro se oggi, forse, mangiamo meglio. Poi c’è la parte che riguarda le etichette, i composti, gli ingredienti utilizzati, i coloranti, insomma una lista di molecole che interessano soprattutto gli specialisti del settore e che invece al comune consumatore non fanno che aumentare i dubbi e i timori, quando si trovano a leggere un’etichetta. Non possiamo delegare al consumatore il controllo delle etichette. Lo deve fare lo Stato, controllando a monte, come in parte fa, che quello che viene dichiarato nei manuali di autocontrollo corrisponda al vero.
E veniamo ora al piacere del cibo. Qui l’autore si fa prendere la mano dalla passione, nella convinzione che ci sia una relazione fra correttezza delle procedure e il livello qualitativo di un prodotto. E inanella una serie di affermazioni che la dicono lunga sul livello di conoscenza persino degli addetti ai lavori.
Ne cito solo alcuni: “il Parmigiano Reggiano, organoletticamente migliore rispetto al Grana Padano. Si differenzia poiché nel processo tecnologico del primo non compare la lisozima che è un conservante naturale, rendendo il processo del Grana meno pregiato. Gli unici formaggi al mondo che a livello industriale non fanno uso di conservanti sono il Parmigiano e il Trentin Grana”. Come il lisozima possa intervenire sul livello qualitativo è un mistero, le differenze fra i due formaggi riguardano essenzialmente la razione alimentare, l’insilato di mais e la maggiore quantità di mangimi che gli allevatori del Grana utilizzano. E poi questa storia dei conservanti, come dice anche la pubblicità del Parmigiano Reggiano, secondo la quale li usano tutti.
I formaggi DOP italiani rappresentano quasi l’80% della produzione nazionale. Nessuno usa conservanti (eccetto il Grana, ma è, appunto, un conservante naturale, innocuo) e così nel resto d’Europa. Ancora: “la ricotta come ingrediente deve contenere solo siero di latte (al limite sale): niente aggiunta di crema e niente correttori di acidità.” Tradizionalmente, la ricotta si fa anche con una aggiunta di latte, quale è il problema? “per altri formaggi e derivati del latte vi consiglio di acquistare in gastronomie ben fornite. Evitate come la peste tutti gli pseudo-formaggi da supermercato: formaggi spalmabili, formaggini, formaggio a fette, fiocchi di latte. “Addirittura, i formaggi spalmabili sono pericolosi? Ma fra i formaggi spalmabili ci sono pure le robiole, molti caprini, insomma, grandi formaggi. Cito solo l’ultima a proposito degli antiossidanti: “antiossidanti come zinco, selenio e vitamina A (che non mi risulta abbia proprietà antiossidanti) si trovano anche in alimenti di origine animale come il latte. Nel formaggio Grana Padano DOP, che è un vero concentrato di tutti i nutrienti del latte fresco (tranne il lattosio, poiché ne è naturalmente privo), se ne trovano infatti ottime quantità, basti pensare che servono 1,5 litri di latte per produrne 100 grammi”.
Ma gli antiossidanti del latte sono soprattutto il beta-carotene e la Vitamina E, oltre ai polifenoli, assai poco studiati e il loro contenuto è molto influenzato dell’alimentazione degli animali. Più l’allevamento è al pascolo e più queste molecole, ma anche la capacità antiossidante, aumentano. Il Grana è prodotto con il latte di animali alla stalla, in un sistema molto intensivo, dove i concentrati raggiungono quote elevate. Quindi, il loro contenuto deve essere al minimo. Ripeto, non mi meraviglia questo approccio e questa cultura, mi meraviglia, o meglio mi dovrebbe meravigliare che con questo bagaglio culturale ci si permetta di dare consigli ai consumatori. E infatti non dovrei meravigliarmi, è il mito della caverna di Platone. Bisogna uscire dalla caverna? No, diceva Aristotele, bisogna conoscerla a fondo. Ed è proprio questo il problema.