L’etichetta dovrebbe essere scritta in maniera tale da fornire ai consumatori indicazioni utili per gli acquisti. Dovremmo poter capire, alla voce ingredienti, se c’è un giusto rapporto prezzo qualità e con quali parametri il produttore supporta il suo racconto, le caratteristiche e la specificità del prodotto. Se compriamo una maglia, l’etichetta ci da informazioni sulla composizione della materia prima, se si tratta di cashmere o di lana o mohair, non certo sullo spessore della fibra, che è il vero parametro di qualità; anche se al tatto possiamo farcene un’idea. Nel settore lattiero-caseario, l’impianto è lo stesso, l’industria ha nel tempo sviluppato una cultura dell’etichetta “pro domo sua”: dire il minimo indispensabile, enfatizzare l’irrilevante o addirittura mettere in positivo l’handicap. Quindi, non ci dobbiamo aspettare molto dalla lettura delle etichette. Però, se disponiamo della chiave di lettura, se sappiamo cosa e dove cercare, possiamo risalire, dall’analisi di un dettaglio apparentemente banale, alla qualità e al giusto prezzo. Vediamo come.
Il Latte alimentare
L’etichetta dei latti che troviamo nei supermercati riporta tre tipologie di informazioni.
La prima, quella più in evidenza e che salta subito all’occhio, è la scritta: latte omogeneizzato e standardizzato. Nel primo caso ci viene segnalato che, per evitare che il consumatore si spaventi nel vedere la panna che galleggia, il latte è stato omogeneizzato. Nel secondo caso, nella logica che è meglio per il consumatore avere un latte sempre uguale tutti i giorni, le quantità di grasso e di proteine vengono ogni giorno standardizzate.
La seconda fa riferimento al trattamento termico del latte: pastorizzato fresco, alta pastorizzazione, microfiltrato, UHT. Per un breve periodo, un decennio fa, molti allevatori tentarono di vendere direttamente il latte crudo direttamente ai consumatori, attraverso dei distributori localizzati in aree pubbliche nei dintorni dell’azienda. Ma subito scattò la controffensiva dell’industria, spaventata da un possibile ragionamento sulla qualità e tutto si è fermato.
Infine, sull’etichetta vi è sempre un riquadro che riporta la composizione chimica: grasso, di cui saturi, proteine, lattosio, di cui zuccheri, calcio e calorie.
Vi è poi un’altra scritta che campeggia in quasi tutti i latti e che è in posizione centrale, in grande evidenza: Latte di Alta Qualità. Anche in questo caso si tratta di un “cicero pro domo sua”, di una definizione voluta dalla legge 169/89 per tentare di salvaguardare il mercato del latte italiano. Intento nobile, ma risultato pessimo perché, per l’attribuzione della denominazione “Alta Qualità” furono individuati parametri: carica batterica, cellule somatiche, grasso e proteine, che nulla avevano e hanno a che vedere con la qualità. Anzi! Quindi, ecco un dato che non ci da nessun tipo d’informazione, o meglio, ci fa capire che, forse, quel latte di qualità ne esprime poca.
Vediamo ora di analizzare gli effetti di questi interventi tecnici sulla qualità. Una premessa necessaria da fare è che il latte, come qualsiasi altro alimento, è (o dovrebbe essere) un organismo nel quale le molecole sono in perfetto equilibrio tra di loro. Quindi, è lecito ipotizzare che qualsiasi intervento noi facciamo, anche quello che apparentemente è il più innocuo, farà danni, perché andrà a perturbare l’equilibrio di partenza.
Omogeneizzazione e standardizzazione. Nel secondo dopoguerra il latte si acquistava ancora nelle stalle, direttamente dall’allevatore. Con la ripresa economica l’industria tentò di fare del latte un prodotto di massa. La pastorizzazione permetteva di salvaguardarne la salubrità ma la variabilità era troppo levata. La composizione cambiava da zona a zona e nel corso delle stagioni. E poi il latte era particolarmente grasso e i globuli, venendo a galla, creavano un tappo che i consumatori potevano non gradire. Di qui la standardizzazione e l’omogeneizzazione. Con la prima si fissò a 3, 2% il contenuto di proteine e a 3,5% quello del grasso. Con la seconda si eliminò il rischio della formazione del tappo. Ma la tecnica per ottenere questo effetto non è incruenta. L’omogeneizzazione viene effettuata utilizzando un’apparecchiatura costituita da una pompa a pistoni in grado di innalzare la pressione (130-250 bar, 50-50°C) e di determinare una forte diminuzione della taglia dei globuli di grasso (0,1- 0,2 μm²), con conseguente aumento dell’aria interfacciale da 7 a 30 m²/g, della rottura della membrana e dell’assorbimento delle proteine nell’interfaccia. I danni non sono pochi: l’azione degli enzimi digestivi e il loro metabolismo subisce dei cambiamenti e la presenza di aria nell’interfaccia può dare luogo a fenomeni di ossidazioni, che a loro volta si ripercuoteranno sul gusto.
Più incisivo è il ruolo del trattamento termico. Nel caso del latte, sia il raffreddamento sia il riscaldamento hanno effetti che aumentano con l’aumentare del trattamento. Il raffreddamento interessa di più il latte che è destinato alla trasformazione. Dal momento che la carica batterica è sempre più bassa e poiché con temperature di conservazione intorno ai 4°C c’è uno sviluppo di batteri psicrotrofi, che a loro volta possono creare danni al formaggio, oggi il mondo della caseificazione cerca di conservare il latte a una temperatura intorno ai 12°C.
Nel caso del latte alimentare, le temperature a cui questo viene sottoposto variano da 72°C per il pastorizzato fresco a 135°C per l’UHT. I trattamenti termici possono determinare alterazioni sensoriali, una riduzione del valore nutrizionale, perché le vitamine termolabili (B, A, beta-carotene) si riducono o riducono la loro biodisponibilità, come nel caso del retinolo oltre che della lisina e una modificazione della digeribilità delle proteine, che vengono parzialmente denaturate. Naturalmente gli effetti sono tanto più grandi quando più intenso è il trattamento termico. Allora si capisce bene come la lettura del tipo di latte che andiamo a comprare ci fornisce elementi sufficientemente chiari per orientare la scelta.
Ricapitoliamo. Il Latte pastorizzato fresco viene trattato a 72°C per pochi secondi; quello ad alta pastorizzazione intorno a 85°C per 15 secondi oppure a 110-120°C per qualche secondo, l’UHT (temperatura ultra elevata) a 135°C per un periodo di durata appropriato.
Il microfiltrato è un discorso a parte. Il latte viene prima scremato e poi viene fatto passare attraverso dei filtri che separano i singoli componenti. I batteri vengono eliminati, anche quelli buoni, il grasso viene pastorizzato a 72°C e poi viene tutto rimesso insieme. Tutti questi passaggi e la pastorizzazione del grasso comunque avranno i loro effetti collaterali negativi.
Aggiungo che ormai c’è una vasta bibliografia, prodotta soprattutto dalla ricerca medica, che dimostra che l’aumento delle allergie, delle intolleranze e dell’asma è dovuto ai trattamenti del latte e soprattutto al fatto che non si usa più latte crudo, l’unico che rinforza le difese immunitarie.
E la qualità?
Finora però abbiamo parlato degli effetti che i vari trattamenti determinano sul latte. Ma a noi interessa soprattutto la materia prima, il latte, la sua qualità. Una volta che abbiamo contezza del suo valore, poi la scelta finale è più semplice, perché sarà dettata o da esigenze familiari, di praticità, e quindi latti a più lunga conservazione, o da scelte di qualità, latti crudi a bassa pastorizzazione.
Come facciamo a capire il livello qualitativo del latte contenuto nella bottiglia? L’etichetta attuale ci permette di risalire alla qualità? Fino a qualche anno fa, decisamente no! Sull’etichetta veniva riportata la composizione chimica e le calorie. Ma il grasso e le proteine non hanno alcuna relazione con la qualità (e il fatto che il latte venga standardizzato, cioè ne viene abbassato e reso costante il contenuto ne è la dimostrazione più evidente), il lattosio non viene mai preso in considerazione perché ininfluente, il calcio è una costante in tutti i latti. Da quest’anno però la situazione è cambiata, perché la UE ha voluto recepire alcune indicazioni nutrizionali che provenivano dagli Stati Uniti e in particolare la quantità degli acidi grassi saturi. E’ noto che i grassi saturi hanno effetti prevalentemente negativi sulla salute e quindi bisogna tenerli sotto controllo: meno ce ne sono meglio è. L’industria, o almeno quella parte che utilizza latti provenienti da allevamenti molto intensivi, quindi di scarsa qualità, ha cercato di attenuarne gli effetti pretendendo che il dato che viene indicato in etichetta sia quello assoluto. Infatti le voci e il relativo dato che vengono riportati sono: “grassi”, per esempio 3,5% e “di cui saturi”, diciamo 2,6%. Ora il dato assoluto dice poco, praticamente niente; come facciamo a capire se 2,6 è molto o poco? Invece se lo vediamo in percentuale rispetto al grasso totale allora possiamo capire quale è il peso dei saturi sul totale dei grassi. Il vantaggio è duplice: non solo abbiamo immediatamente la percezione dello scarto fra saturi e insaturi, ma noi possiamo risalire alla qualità del latte perché questo rapporto è determinato dall’alimentazione degli animali e, quindi, è in relazione ad altri parametri qualitativi del latte. Insomma, se un animale mangia bene, se utilizza una razione con molta erba e molte erbe, non solo aumentano i grassi insaturi, ma aumentano anche gli antiossidanti, a cui devono il contenimento della loro ossidabilità, e le molecole aromatiche. Quindi più il rapporto saturi/insaturi sarà basso e più il latte è di qualità. Come facciamo per saperlo? Dobbiamo armarci di telefonino, prendere la calcolatrice e fare un rapido calcolo: saturi, diviso i grassi totali, moltiplicato 100. Nel nostro caso 2,6:3,5X100 abbiamo 72%. Gli insaturi saranno il 28%. Quali sono i rapporti di riferimento, come ci orientiamo? I latti dei sistemi intensivi, quelli più scadenti hanno valori intorno a 70/30, nei latti di animali al pascolo il rapporto va sotto il 50%; abbiamo avuto dati anche di 45/55.
Aggiungo che pochi hanno la percezione di questo dato, gli stessi produttori non conoscono queste caratteristiche per cui molte etichette, soprattutto quelle dei latti industriali, sono simili, segno che, forse, le analisi non sono vere, si è fatto un copia/incolla, tanto serve a poco. Quando invece si trovano valori molto bassi, le analisi sono vere ma il produttore non ne comprende il valore, il potenziale comunicativo. Tanto che non lo sfrutta nel messaggio promozionale.
Però per il consumatore resta un formidabile strumento conoscitivo anche valutare il rapporto prezzo/qualità.