Made in Italy 100 %: “Vi spiego perché dovremmo smetterla con questo nazionalismo”

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di Roberto Rubino*

Nelle piazze di tutto il mondo, popolazioni in rivolta cantano, in italiano, “Bella Ciao”, senza che nessuno glielo abbia mai chiesto, ma solo perché è orecchiabile e perché sanno che è un inno alla libertà. 

Nei mercati italiani, un altro slogan si va imponendo o si cerca di imporre: prodotto 100% italiano. L’Unione europea proibisce questo tipo di marchio perché mina la libera concorrenza, tutti i ministri dell’Agricoltura degli ultimi anni lo hanno richiesto e se ne sono fatti portavoce. Le organizzazioni professionali ne fanno un simbolo di lotta al pari di Bella Ciao, forse qualche volta l’avranno anche cantata. I produttori ci sperano per vendere meglio. I consumatori ci credono perché dicono: non sapendo cosa comprare, almeno andiamo sul sicuro. Insomma, almeno questa volta il popolo italico è unito e marcia compatto. Ma quando c’è unanimità sarebbe meglio chiedersi dov’è il trucco? E allora due o tre questioni le vorrei porre.

A tutti questi signori che continuamene ci propongono o difendono questa impostazione credo che sia lecito chiedere: ma voi comprate italiano? Voi che volete per forza che io debba comprare quelle mele trattate 30 volte e senza sapore, quel latte inodore e insapore, quegli ortaggi anonimi, quando andate in un negozio o al mercato comprate solo italiano? La vostra macchina è una Fiat, l’orologio o le lamette o i vestiti e cosi via sono italiani? E se abbiamo bisogno di importare grano o latte o carne per rifornire le nostre industrie di trasformazione che facciamo? Pretendiamo che quei prodotti li rivendano all’estero, perché, per carità, mica possiamo mangiare una materia prima non del suolo patrio?

L’altra domanda che mi faccio è: perché? Le persone e le organizzazioni che ci dicono di comprare italiano sono le stesse che ci ricordano in continuazione che noi abbiamo la migliore gastronomia al mondo, che tutti ci copiano, che tutti ci imitano, che l’italian sounding è un dato di fatto. Ne siamo tutti orgogliosi. Ma se così è, se siamo così bravi, perché poi dobbiamo ricorrere a mezzucci di questo genere? Mezzucci mica tanto seri, perché il messaggio subliminale è perfido: si vorrebbe far credere che tutto quello che è italiano è buono. Chi è conscio della propria forza, del proprio valore, non ha bisogno di dirlo, sono gli altri a riconoscerglielo. Perchè allora noi abbiamo sempre bisogno di confermare il valore dei prodotti italiani, arrivando al ridicolo di dire che, invece, quelli dei paesi vicini non lo sono affatto? In questo momento l’olio italiano è in crisi perché dalla Spagna arriva olio a prezzi più bassi. Tutti contro la Spagna e l’olio spagnolo che, ça va sans dire, è più scadente del nostro. Ma perché è più scadente? Nessuno ce lo sa dire, tanto meno quelle organizzazioni professionali che alimentano queste voci. Per quello che mi risulta, in nessun altro paese c’è questa pretesa di imporre il 100% della materia prima nazionale. 

Ma veniamo al nocciolo della questione.  La gran parte di questi produttori e di tutto quel mondo che gira intorno al settore agricolo, che pretende che sull’etichetta sia riportata la scritta: “100% italiano”, è convinta che la qualità delle nostre produzioni sia realmente alta e comunque superiore a tutte le altre. Ecco perché i nostri prodotti dovrebbero anche costare di più. Anche in questo caso le contraddizioni sono numerose. Innanzitutto il prezzo: in genere i prodotti italiani sono quelli che costano meno. E basta guardare il vino, l’olio, il latte, la carne, il grano. E poi, ma tutto il grano italiano è uguale? E così il latte, la carne, il riso? Certo, sappiamo che il prezzo della materia prima è unico, quindi tutto dovrebbe essere uguale. Ma se tutto è uguale allora non c’è qualità. Già Aristotele, nella Metafisica, dice che la qualità è differenza. E siccome l’Italia non è una grande e piatta pianura, ma un paese eterogeneo, con un territorio variegato anche nel raggio di pochi chilometri, va da sé che le produzioni agricole per forza sono diverse. Allora perché il prezzo è unico e le facciamo passare per tutte uguali? Ecco, questo è l’effetto più macroscopico di questo approccio. Se tu vuoi semplificare il messaggio finisci per ignorare le motivazioni che sono alla base del livello qualitativo e delle sue cause e limiti tutto a un semplice e banale: 100%italiano. E così il paese che si vanta della propria gastronomia ha paura del mercato, si affida a messaggi primitivi, e innaffia la propria ignoranza con abbondanti irrigazioni. 

Solo due esempi. La Sicilia è storicamente il granaio, una volta dei Romani, ora d’Italia. Il suo grano è tutto uguale? Probabilmente, perché il sistema di produzione è piuttosto simile e poi le varietà influiscono molto poco, quasi niente. Ma quale è il suo livello qualitativo? Non lo sappiamo, o meglio, diciamo che è alto perché italiano e perché i grani sono antichi. Ma allora perché abbiamo paura del grano canadese, che non è italiano, non deriva da grani antichi e, quindi, è scadente? E viene pagato di più di quello siciliano? Ma non eravamo i più bravi? Se invece avessimo perso il nostro tempo a capire la qualità, forse una chiave di lettura ce l’avremmo. Provate ad assaggiare il pane o le paste siciliane. Semplicemente straordinari. Perché? Non lo sappiamo e così il grano canadese, molto più scadente, viene pagato di più perché ha un contenuto proteico più alto. E che c’entra la proteina? Niente, ma bisognerebbe saperlo e siccome non se ne ha idea, è più semplice mettersi a cantare l’inno di Mameli. Quindi noi abbiamo un grande prodotto, che non sappiamo difendere, perché non abbiamo gli strumenti conoscitivi per leggerne e misurarne il livello qualitativo.

E poi c’è il latte. In questo campo le etichette italiane si sprecano. Da tutte le parti ci dicono che il latte italiano è il migliore. Certo, è quello che costa di più. Una volta tanto sappiamo vendere. Ma se la qualità di un prodotto è dato dalla materia prima, allora ci dovremmo aspettare formaggi straordinari, incredibili e carissimi, o almeno leggermente cari. Partiamo dal burro. C’è qualcuno che conosca il burro italiano? E le ricotte? E le paste filate? Io che vivo al Sud, faccio fatica a trovare un fior di latte accettabile. Senza parlare delle ricotte. La gran parte delle nostre vacche stanno chiuse in stalla e vengono alimentate con una quantità enorme di mangime, con silo-mais e fieni scadenti. Solo d’estate si riescono a trovare formaggi decenti perché i caseifici importano cagliate dall’estero, da quei posti dove d’estate gli animali li mandano al pascolo e solo allora, i formaggi, anche se fatti con latte pastorizzato e con i fermenti, hanno un gusto interessante e intenso. Ecco un caso in cui l’etichetta può servire. Se c’è scritto 100% italiano, sai cosa ti aspetti. Quindi, smettiamola con questo nazionalismo di bassa lega, in tutti i paesi ogni mattina un produttore si alza per produrre e fare bene il proprio lavoro. Ciascuno sceglie il livello qualitativo che vuole proporre al mercato. L’importante che a ciascuno venga riconosciuto il giusto prezzo. Ma come si fa se continuiamo a dire che tutto è uguale? Siamo quindi noi, sono questi politici e queste organizzazioni professionali che pretendono e impongono il prezzo unico e il tutto uguale. 

Eppure la strada da percorrere è meno difficile di quello che sembra. Basta osservare quello che ha saputo fare il mondo del vino in qualche decennio. A prescindere dal vitigno e dal marchio europeo, ogni bottiglia ha il suo prezzo, diverso anche da quello di una bottiglia prodotta nella stessa cantina e con lo stesso vitigno. A ciascuno il suo, appunto.

*Presidente Anfosc

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