Il rinascimento del vino italiano viene fatto risalire al metanolo, allo scandalo che ne seguì e alla determinazione degli addetti al settore. Visto che ogni medaglia ha il suo rovescio, possiamo ipotizzare e sperare che anche la crisi del latte possa innescare un analogo meccanismo virtuoso e far rivivere le nostre montagne ormai silenziose?
Facciamo un passo indietro. Negli anni sessanta del secolo scorso i teorici dello sviluppo pensarono che i produttori di uva, così come quelli del latte, avrebbero potuto vendere la materia prima a prezzi accettabili se, tutti insieme, avessero conferito il prodotto a centrali cooperative, cantine e caseifici. Dappertutto furono create strutture quasi sempre più grandi rispetto alle potenzialità; i costi di gestione erano, per questo, enormi, la managerialità era affidata spesso a persone esterne al settore, poco competenti, perché di nomina politica. Morale della favola, agli inizi degli anni ottanta la quasi totalità di queste strutture è stata costretta a chiudere.
Per fortuna, si fa per dire, scoppia la crisi del metanolo. Il settore reagisce e sceglie, senza tentennamenti, la strada della qualità. I protagonisti della rinascita furono due: le cantine e gli enologi. Imprenditori privati, con o senza una tradizione enologica, nel momento in cui decisero di avviare quest’attività si affidarono a enologi esperti che conoscevano bene il proprio mestiere. Nel settore del vino la ricerca era molto più avanti rispetto a quella del settore caseario, i francesi avevano spianato la strada e fu quindi relativamente facile recuperare la qualità e arrivare, in pochi decenni, al successo attuale.
Il mondo del latte, dopo la chiusura dei caseifici sociali, è andato in una direzione diversa. O meglio, voleva anch’esso fare qualità e tutti i protagonisti sono anche convinti di averla fatta ma, poiché non c’era il corrispettivo dell’enologo nel latte (non abbiamo neanche la parola per indicarlo: caseologo?), non c’era chi potesse indicare la giusta direzione, ha puntato sul massimo dell’intensivizzazione, chiamandola però innovazione e modernità. Purtroppo la ricerca ha assecondato questo modello, arrivando a dimostrare l’indimostrabile e cioè che fra qualità e quantità c’era una relazione positiva. Quindi più il latte perdeva di qualità, visto che le produzioni individuali degli animali aumentavano a dismisura, e più il settore trovava accorgimenti per dimostrare che, invece, si faceva qualità. La legge 169 del 1989 ne è un esempio: ha definito di “Alta qualità” il latte prodotto con metodi intensivi. E il settore è ancora convinto di fare qualità, tanto che oggi tutti continuano a imprecare contro i politici, che una volta tanto non hanno colpe, e contro il latte straniero, sostenendo a spada tratta la superiorità del latte italiano.
Ma se Atene piange Sparta non ride. Se gli allevatori hanno colpe, non minori ne ha l’industria. Abbiamo visto che nel mondo del vino la rivoluzione l’hanno fatta le cantine, l’industria di trasformazione. Nel settore del latte l’industria, a un latte sempre più scadente e sempre più pulito (poco reattivo e povero di biodiversità microbica), ha risposto con tecniche che contribuiscono ad abbassare ulteriormente la qualità. Praticamente tutti i formaggi industriali e non, salvo le DOP, sono prodotti con latte pastorizzato e con l’aggiunta di fermenti, o meglio, di un solo fermento. E la quasi totalità delle paste filate bovine è ottenuta con acido citrico. Emblematico e sintomatico il messaggio che una nota industria casearia ha affidato alla pubblicità, spendendo anche soldi: se la mozzarella è gialla scartatela perché è fatta con acido citrico. Non solo non c’è relazione fra il colore e l’acido citrico ma se è gialla la mozzarella è buona. Altrimenti desisti, diceva Totò.
In Francia la qualità del latte in molti casi è peggiore della nostra. Penso al latte caprino e a quello ovino. Nel Poitou Charente tutte le capre vengono alimentate come le vacche e il latte è ai minimi termini. Nel Roquefort, la pecora Lacaune, negli anni settanta del secolo scorso, produceva 100 litri per lattazione. Oggi ne fa settecento di media. E però in entrambi i casi l’industria lavora tutto a latte crudo, i caprini sono “moulè à la louche”, messi in forma a mano. Tutto il settore sta cercando di eliminare i fermenti. Insomma in Francia è l’industria che prova a rimediare agli errori o ai limiti dei produttori. In Italia invece entrambi vanno a braccetto e fanno a gara a tenere bassa l’asticella della qualità. Beninteso, sostenendo in ogni momento che nessuno come noi italiani fa qualità.
Quando qualcuno mi chiede perché sostengo che produciamo formaggi di modesta qualità( parlo in generale, perché ce ne sono di straordinari) rispondo sempre allo stesso modo: guarda il prezzo del formaggio. O è giusto, oppure siamo degli incapaci, perché non sappiamo vendere. Io sono per la prima opzione. Se il Parmigiano Reggiano di 24 mesi viene venduto in questa settimana da un ipermercato a 10 euro al Kg, qualche domanda ce le dobbiamo pure porre.
Quindi, il settore primario è abbagliato dalla propria storia, l’industria è debole e non ha il “caseologo”.
Vuoi vedere che la molla la farà scattare la tanto vituperata GDO? La Grande Distribuzione?
C’è qualche segnale e ne parleremo nel prossimo articolo.