di Roberto Rubino
La crisi del latte e del grano non demorde, anche se le vacanze ne hanno attenuato il clamore. Ma a volte non è tanto pericoloso il male quanto il rimedio. Il settore del grano si sta rifugiando nei grani antichi, i protagonisti hanno scelto la strada delle varietà (grani locali, Cappelli, Saragolla, ecc.), quelli del comparto zootecnico, avendo esaurito questi percorsi, hanno, obtorto collo, optato per la specie, visto che le razze non hanno, ahimè, più appeal. Anche i più duri, hanno dovuto ammettere che la razza non può dare un latte diverso solo per il diverso colore del mantello e allora, invece di cercare la soluzione all’interno, meglio cambiare strada. E allora, ecco il ritorno della capra. Perché ritorno? Negli anni post sessantotto, i “figli dei fiori”, quei giovani che cercavano via alternative al modello che volevano combattere, trovarono nell’allevamento della capra la soluzione ideale: un animale che sembrava anch’esso figlio dello sfruttamento della borghesia, sempre ai margini della società seppur osannato per le proprietà quasi miracolose del suo latte. Visto che si parla di intellettuali prestati all’agricoltura, come non richiamare i miti, il capro espiatorio, l’etimologia della tragedia, l’allattamento di Zeus. Un racconto che tornava comodo nella vendita di prodotti, che dovevano essere straordinari solo perché fatti con il latte della capra, un animale sempre perseguitato e, per questo, vittima del sistema. E così, mentre piccoli allevamenti sorgevano in varie parti d’Italia, le politiche di sviluppo, che poco conoscono i miti greci e che anzi se ne tengono alla lontana, pur sposando la tesi che la capra potesse rappresentare un elemento di sviluppo, puntarono su animali iscritti al libro genealogico per porre le basi per la caprinicoltura moderna. Ma, come spesso succedeva in quegli anni, nessuno spiegò a quegli esperti, absit iniura verbis, che in Italia non c’era nessun libro genealogico della capra italiana, c’erano solo oltre un milione di capre che pascolavano libere e felici su tutto il territorio della penisola. Fu così che, per legge, quei giovani intellettuali e non solo, si videro costretti a importare animali dall’estero: Saanen, alpine, nubiane, sostituite poi da Murciano grandine, malaghegna e altre. Ma poiché il problema non era la razza, ma le capacità dell’allevatore e del casaro, il modello di sviluppo non ha funzionato. Lentamente quelle aziende hanno chiuso o hanno vivacchiato e le capre hanno subito un declino. Le capre e soprattutto i formaggi. Oggi abbiamo oltre 35 formaggi DOP, solo uno, se ricordo bene, la Robiola di Roccaverano, può essere fatto anche con latte di capra e il sistema è in declino. I formaggi di capra sono una rarità e la loro qualità è un’araba fenice.
E siccome tutto ritorna, ecco che ora, in questo momento di crisi, da più parti si sta guardando alla capra come soluzione alternativa alla crisi. Anche questa volta il ragionamento non fa una grinza: se il latte di vacca è in crisi, occorre puntare su un latte diverso. Pensiero accettabile, se non fosse per le motivazioni che si vanno adducendo: il latte di capra ha un’immagine positiva, il latte è più digeribile, ha meno caseina, è più vicino al latte di donna. Anche in questi giorni d’estate, su un settimanale importante, un famoso dietologo discettava su questa ormai consolidata immagine del latte molto digeribile perché i globuli di grasso sono più piccoli. E perché mai un globulo di grasso più piccolo dovrebbe essere più digeribile? La digeribilità indica la quota di quel cibo o di quella molecola che viene assorbita, mentre la restante parte va nelle feci. Per il grasso, questa quota non cambia in relazione alla sua grandezza, anzi se per caso mai dovesse cambiare, sono proprio le particelle più piccole che, ammassandosi, creano un bolo difficilmente più digeribile. E, ammesso che fosse così, ma che caratteristica è? Un latte è buono solo se più digeribile? Se riusciamo ad assimilare la maggior parte di quello che ingeriamo? E la qualità del grasso non conta? E quella del latte nella sua globalità?
Una grande azienda mi ha contattato per avere un giudizio su un blu di capra che voleva mettere in produzione. Al telefono ho detto che non avevo bisogno di degustare il formaggio ma che almeno in prima battuta mi bastava conoscere l’alimentazione degli animali. Mi è stato risposto che si preferiva puntare sull’immagine positiva del latte di capra. Insomma perché non sfruttare la moda invece di entrare nello specifico della qualità e dei fattori che la determinano? Nella mia lunga carriera di ricercatore mi sono sempre occupato di capre e della qualità del suo latte. E’ stato proprio studiando il sistema di produzione e l’alimentazione che ho capito che la qualità non dipende dalla specie o dalla razza ma dal sistema di alimentazione, da quello che mangiano gli animali, dalle singole erbe, sempre diverse cui l’animale ha accesso.
Quindi, vorrei dire a tutti quelli che decidono di affrontare una nuova avventura in questo settore, che non è la capra o una razza particolare che li può inserire, d’emblée, nella fascia di mercato di chi ama “la puzza sotto il naso”, dei formaggi di classe, ma un latte prodotto con animali che mangiano una grande varietà di erba e un latte trasformato a crudo e senza fermenti. E possibilmente con un formaggio stagionato in locali naturali, lentamente.
Per secoli il capro espiatorio è stato il simbolo di una colpa addossata simbolicamente e non solo a un soggetto esterno, estraneo all’ambiente. Forse la capra si sta riprendendo la sua rivincita: quella società chiede aiuto alla capra per le sue debolezze culturali e colturali. Insomma non più il capro espiatorio, ma il “caprone espiatorio”, tutti quegli avventori dell’ultima ora che si sacrificano sull’altare della modernità.