C’è una soluzione alla crisi del settore latte, crisi che diventa ogni giorno sempre più drammatica? La malattia si cura se se ne individua la causa. Certo, la causa scatenante è l’eccesso di latte sul mercato mondiale. Ma quella è ormai una “non causa”, nel senso che è un problema non risolvibile, visto che riguarda il mercato mondiale e tutti i problemi, se non si possono risolvere, semplicemente non esistono. Secondo me una causa non secondaria riguarda l’eccessivo appiattimento dell’offerta: la forbice fra il formaggio meno caro e quello più caro è molto ristretta, a volte inesistente. Recentemente in un supermercato di Oristano ho visto una Peretta bianca, chiaramente prodotta con latte di stalla, allo stesso prezzo, 7 euro il chilo, di una Peretta gialla, sicuramente di pascolo. Questa pessima strategia di marketing non solo mortifica i prodotti di qualità e i produttori che testardamente insistono nel produrre grandi formaggi, ma crea problemi anche a chi fa formaggi di massa, a basso prezzo, perché quel segmento finisce per essere eccessivamente ingolfato.
Allargare questa forbice, emulare seppure timidamente il settore del vino dove lo stesso vino può costare un euro e 3000 euro, significherebbe un giusto prezzo per il produttore e un disingolfamento di quella fascia di mercato. Insomma, un vantaggio per tutti i protagonisti della filiera.
Come si allarga la forbice? Chi ritiene di produrre già qualità, deve acquisire le parole chiavi, i parametri per dimostrare la diversità dei suoi prodotti. Se tutto il latte è uguale, se per dimostrare la qualità facciamo sempre riferimento a grasso e proteine, peggio ancora a carica batterica, allora non c’è storia, perdiamo tempo. Se parliamo di erba, di rapporto omega6/omega3, di antiossidanti, ecc., allora possiamo pretendere un prezzo più elevato. Un’altra soluzione è elevare al massimo la qualità del latte e dei formaggi. Molta erba, molte erbe diverse, latte crudo, niente fermenti, stagionatura in locali naturali e affinamento molto curato.
Ma vendere a prezzi più alti si può? Credo che la quasi totalità dei produttori pensi che sia impossibile. E’ la risposta che spesso ottengo quando provo a proporre quest’approccio. Finché un giorno non scopri che qualcuno lo sta già facendo e va diritto per la sua strada. A Roma, nel ghetto ebraico, in via Santa Maria del Pianto, c’è il negozio di Beppe Giovale, Beppe e i suoi formaggi. Una bella vetrina di formaggi diversi per tipologia ma tutti fatti con latte crudo di animali al pascolo. Ma, cosa più importante, a prezzi che non ti aspetti.
Va bene il Beaufort a 54 euro il chilo, mi sta ancora bene il Salers (latte crudo, non riscaldato di vacche Salers), ma si resta a bocca aperta di fronte ad una “volgare” Toma della Val Susa presentata in due versioni: quella più giovane, solo 23 anni di affinamento a 245 euro al Kg e l’altra, 26 anni a 315 euro. Se pensiamo che una toma normale, anche Dop non costa più di 10 euro, una forbice di 30 volte, mi sembra giusta e in grado di ripagare gli sforzi di tutti i protagonisti della filiera.
Ho chiesto a Beppe: come reagiscono i consumatori? “Di fronte ad un grande formaggio il consumatore attento si raccoglie in meditazione, centellina il consumo e gode di ogni singolo morso”, risponde Beppe con soddiasfazione.
Un’altra strada quindi è possibile.