Qualcosa si muove nel mondo della pasta: finalmente si parla di grano, della materia prima.
Per anni ci hanno fatto ascoltare la solita litania: pasta trafilata in bronzo ed essiccata lentamente, senza però che il consumatore potesse avere gli strumenti per capire come mai la differenza di prezzo fra i diversi marchi commerciali fosse quasi di dieci volte.
La situazione era la stessa nel mondo della panificazione: forno a legna e lievito madre.
Da qualche anno, per uscire da questo vicolo cieco, anche perché l’industria ha sempre bisogno di ampliare la gamma dell’offerta, è scoppiata la moda dei grani antichi, soprattutto il grano duro Cappelli.
Ma siamo sempre nell’ambito di fattori, in questo caso la varietà, che non hanno alcuna influenza sul livello qualitativo del grano e, di conseguenza, sui prodotti trasformati.
Perché mai il grano Cappelli dovrebbe essere migliore del Creso o dello Svevo? Perché è più alto, con meno proteina?
Anche in questo caso, se abbiamo un Cappelli di livello superiore, non ne conosciamo le ragioni.
Ma per fortuna c’è il Canada, un paese con territori sconfinati ma dove il freddo costringe i produttori di grano ad utilizzare il glifosate per accelerare la maturazione delle spighe. E allora il glifosate canadese diventa la cartina di tornasole di un sillogismo bislacco, ma che però diventa quasi parola d’ordine: il grano canadese contiene glifosate, non importa se entro i limiti di legge, quindi il grano italiano è migliore. Difendiamo il grano italiano! I consumatori non possono certo acculturarsi su ogni prodotto e subito sposano la causa del prodotto italiano. L’industria, una parte, obtorto collo, si adegua e in questi giorni marchi come il gigante Barilla ma anche altri, stanno proclamando ai quattro venti che useranno e usano solo grano italiano.
A stretto giro risponde la De Cecco: noi usiamo solo grano proveniente dall’Arizona e dalla California!
È già un passo avanti, finalmente si parla di grano, ma non ci siamo ancora, perché ci dovrebbero dire perché il grano italiano o il grano dell’Arizona hanno un livello qualitativo superiore. Ammesso e non concesso che tutto il grano italiano sia uguale e così gli altri grani stranieri.
E invece c’è chi ha fatto un passo in più: il pastificio Cocco. Sul suo sito l’azienda scrive, a proposito del loro grano che viene dall’Arizona: “il grano Extra durum Arizona è coltivato nell’area desertica dell’Arizona, zona che si contraddistingue per il clima caldo e secco con ampie escursioni termiche tra il giorno e la notte e scarse precipitazioni. I terreni sono irrigati giornalmente con acqua da condotte interrate. Dal punto di vista qualitativo è considerato dagli esperti del Crea uno dei migliori frumenti duri del mondo per l’alto contenuto proteico, la tenacità del glutine ed il colore della semola. Noi del pastificio Cocco la utilizziamo perché riteniamo che sia oggi il migliore grano duro al mondo”. Tutto vero, niente glifosate, grande tenacità e alto contenuto proteico. Di quale grano italiano noi possiamo dire la stessa cosa? E poi, ma i produttori italiani di grano non usano glifosate? Mi pare difficile.
Quindi a questo punto i difensori dell’italianità dei grani e, più in generale, delle materie prime, hanno le armi spuntate, soprattutto perché usano lo stesso approccio e lo stesso metodo dei concorrenti stranieri.
In pratica, se continuiamo a insistere sulle razze animali, sulle varietà vegetali e sui confini nazionali noi saremo sempre perdenti perché abbiamo costi di produzione più alti, per evidenti limiti territoriali.
E allora?
Il consumatore vuole una pasta e un pane che abbiano profumo e gusto. Insomma, il cosiddetto flavour. Sappiamo che fra i parametri che tutti prendono in considerazione, e cioè tenacità e livello proteico e il flavour non c’è alcuna relazione e sappiamo anche che aroma e gusto viaggiano separati, sono determinati da classi di molecole diverse.
Proviamo da delineare una ipotesi mica tanto azzardata: il contenuto delle molecole responsabili del flavour dipende essenzialmente dalla resa per ettaro. Come succede nel vino e non solo. E ritorniamo al grano duro dell’Arizona “il migliore al mondo”.
Mi sbaglierò, ma le rese medie di quel grano si avvicinano ai 100 quintali/ha, livelli molto distanti da tanti grani italiani. In Sicilia, paese assolato e asciutto, le rese si mantengono al di sotto dei 40q.
Quindi, se fosse vera l’ipotesi della resa, il grano dell’Arizona avrebbe un contenuto di molecole responsabili del flavour molto basso mentre il grano siciliano sarebbe di altissimo livello.
Non a caso, se andiamo in Sicilia e compriamo il pane in qualunque forno del più sperduto paese, riprendiamo subito confidenza con profumi che avevamo scordato. Se la tenacità è necessaria si può sempre miscelare grani a bassa resa con grani ad alto contenuto proteico, anche italiani.
Ma bisogna decidere se vogliamo vendere una immagine, l’italianità, o un prodotto che abbia gusto e aroma. Noi potremmo fare tutte e due le cose se solo sapessimo da cosa dipende il flavour del grano.
Per adesso un bravo a De Cecco e Cocco, almeno si parla di grano.