Nel mondo, le materie prime agricole sono una commodity. Ad eccezione del settore enologico, cereali, latte carne, e tutto quello che circola sul mercato internazionale ha un prezzo unico, deciso da borse merci collocate chissà dove. Il che determina situazioni a dir poco paradossali, spesso peggio. Prendiamo l’esempio del grano, alimento base di tutte le cucine del mondo. I nostri agricoltori lamentano sempre che il prezzo è troppo basso. Ma siccome è lo stesso in tutto il mondo, non sarà basso certo per l’agricoltore messicano o di altri paesi poveri. E non sarà la stessa cosa per i consumatori. Per restare in Messico, un buon formaggio di latte da pascolo costa mediamente sui 10 euro al Kg. Un po’ come in Italia. Ma mentre lì questo prezzo è buono per il produttore, non lo è certo per il consumatore. Non a caso, il casaro che produce quel formaggio percepisce un salario che è pari a quel chilo che ha prodotto. Sulla Lettura n.16 del Corriere della Sera di fine agosto, Emanuela Scarpellini presenta i dati sull’incidenza dell’alimentazione sulla spesa di diversi paesi. I dati confermano “la legge di Engel”, lo statistico tedesco che, analizzando le spese di consumo delle famiglie in relazione al reddito, osservò che, quanto più la famiglia è povera tanto maggiore è la quota di reddito destinata all’acquisto di beni di prima necessità.
Non ci sono studi sulla qualità di questa dieta ma, se la materia prima ha lo stesso prezzo dappertutto, se quindi la qualità è più o meno simile, vorrà dire che i paesi ricchi, dove la percentuale dell’alimentazione oscilla dall’8% per la Svizzera al 15% dell’Italia, pur potendoselo permettere, mangiano mediamente cibi di basso livello. E questo ci permette di trovare una spiegazione all’aumento vertiginoso dell’ obesità nel nostro paese. Nei paesi poveri vi è un’agricoltura tradizionale la cui qualità è elevata, ma il modello industriale tende a prendere il sopravvento. Le opportunità di mangiare meglio sono senz’altro maggiori, ma ci troviamo di fronte ad una realtà già vista agli inizi del secolo nelle nostre campagne: chi produce grano non può mangiarlo perché non ha i soldi per comprarlo. E, per questo, anche nei paesi poveri l’incidenza dell’obesità è preoccupante. Quindi la commodity, il modello unico del prezzo e della qualità non accontenta nessuno e produce molti danni. Eppure è inattaccabile, inossidabile, perché? Perché l’agricoltura dei paesi ricchi, che teoricamente dovrebbe essere la più forte, non solo è finanziata dagli Stati, ma teme l’incertezza del prezzo e pretende accordi preventivi con l’industria e prezzi collettivi. Facile immaginare la deriva della qualità, perché in questo modo il produttore riesce a sopravvivere solo se abbassa continuamente i costi. C’è una via di uscita? Il settore ha provato con il biologico, ma dopo trenta anni non è che la situazione sia migliorata. Il modello non viene messo in discussione, anche se negli ultimi tempi il biologico trova riscontri importanti. Per la verità un modello che funziona c’è e va abbastanza bene: il vino. È quello più avanzato e che ha successo in tutto il mondo. Non esiste un prezzo unico per la materia prima e meno ancora per il vino. Anzi, a prescindere dalle denominazioni di origine, ogni bottiglia, anche dello stesso produttore, a parità di vitigno, ha un prezzo diverso, che può essere anche mille volte superiore a quello che costa meno. Ma il vino è un modello non solo economico ma anche scientifico: la ricerca è molto avanti, il produttore riesce a gestire, perché ha le necessarie conoscenze tecniche, il livello qualitativo dell’uva e del vino. Tutti sanno e dicono che il vino si fa nella vigna! Quindi, è dalla materia prima che bisogna partire.
Ma se un modello esiste e funziona, perché non imitarlo? Le motivazioni possono essere tante, ma io mi soffermerei soprattutto su due: il dominio dell’industria e la sudditanza della ricerca. Quando si è trattato di passare da un’agricoltura che privilegiava il mercato di prossimità ad una più intensiva e che per forza doveva guardare a mercati lontani, l’industria ha dovuto necessariamente ottimizzare la produzione uniformando la materia prima soprattutto in materia di igiene, di rendimento, di proprietà tecnologiche. Ci spieghiamo così la scelta del grasso e della proteina nel latte, della proteina nel grano, della granulometria in grano e orzo. In questo modo la qualità tecnologica è aumentata ma non quella aromatica e nutrizionale, perché nel frattempo ci siamo accorti che fra le due non c’è nessuna relazione, anzi. E qui entra in gioco la ricerca. Non tanto per problemi economici, negli anni passati lo Stato ha finanziato abbondantemente gli enti di ricerca, ma soprattutto di sudditanza culturale ( vuoi mettere come sono bravi gli americani!), il mondo scientifico ha sposato la causa dell’intensivo, dell’innovazione ad ogni costo ed ha indirizzato le ricerche in maniera da fornire le motivazioni scientifiche alla rivoluzione in atto. E così la quantità è andata di pari passo con la qualità e in questo gioco hanno avuto vita facile e famosa i genetisti i quali si sono convinti e ci hanno convinto che attraverso la genetica potevano risolvere i problemi dell’alimentazione. Naturalmente tutti gli animali e le varietà vegetali venivano selezionati per produrre sempre di più e, miracolosamente, materie prime di grande qualità. In sintesi, oggi il mondo agricolo cerca di produrre il massimo, vuole lo stesso prezzo di chi produce meno, la ricerca chiede finanziamenti per accompagnare questo sforzo con la genetica, la qualità diminuisce e i consumatori sono convinti di mangiare bene, che la dieta mediterranea è la migliore al mondo e via di seguito. Siccome Einstein diceva che un problema si risolve se si elimina la causa che lo ha determinato, se vogliamo creare un’alternativa al modello unico dobbiamo andare nella direzione opposta: un modello che ci permette di ottenere il livello qualitativo desiderato, come nel mondo del vino.
Abbiamo già detto che da quelle parti tutti sanno che bisogna abbassare le produzioni per ettaro o per pianta. Ma come facciamo a dimostrare che abbassando le produzioni di grano facciamo un pane o una pasta migliore, se facciamo mangiare bene gli animali otteniamo una carne o un latte che abbia sapori e profumi? Per chi non è del settore questa domanda potrà sembrare retorica, provocatoria. Ma come, non conosciamo le molecole implicate e i fattori che ne determinano il contenuto? Purtroppo no o solo in parte. Facciamo rapidamente un po’ d’ordine. Noi compriamo un alimento perché ci piace. Certo, medici e persino i cuochi ne magnificano sempre le proprietà antiossidanti (secondo me oggi ingoiamo più antiossidanti di Pantagruel), ma lasciamoli un momento da parte anche perché le molecole che sono responsabili del gusto sono quasi le stesse che influiscono sul valore nutrizionale. Convenzionalmente per aroma intendiamo l’odore e il sapore, quindi una frazione che è volatile ed una che è fissa. Su quella volatile l’accordo è unanime sulle molecole da studiare: in genere parliamo di monoterpeni e di sequiterpeni a 5 atomi di carbonio e che arrivano al massimo fino a 15. Quando avviciniamo alla bocca un cibo la prima cosa che sentiamo è l’odore, soprattutto nella parte retronasale. Poi lo ingeriamo e la bocca può essere invasa da una sentori importanti, che la invadono per tempi più o meno lunghi o può passare inosservato tanto che non ti accorgi di cosa tu possa aver ingerito. Di cosa parliamo? Nel vino parliamo di polifenoli, responsabili del corpo, della rotondità dell’eleganza. Ma negli altri cibi rare sono le ricerche e solo qualcuno pensa ai fenoli. Molti li studiano solamente per le loro proprietà antiossidanti, perché in tal modo le possibilità di vendere quel prodotto, ancorché scadente, sono alte. Da cosa dipende il contenuto di queste molecole? Se non sai quali molecole studiare figuriamo se possiamo sapere da cosa dipende il suo contenuto nel cibo. Il problema non si pone. Megl,natura siamo tutti soggetti alle stesse regole quindi l’odore dipende dai terpeni, il sapore dai fenoli ed entrambi dal livello produttivo: meglio meno. Partendo da questa consapevolezza e utilizzando questo motto, abbiamo provato a mettere in piedi un modello di sviluppo per proporre ai consumatori un prodotto il cui livello qualitativo sia gestito e gestibile a tavolino. Esattamente come si fa nel mondo del vino. Una decina di ani fa avevamo lanciato sul mercato il Latte Nobile, una materia prima ottenuta migliorando l’alimentazione degli animali inserendo nella dieta molta erba e soprattutto molte erbe diverse. Mangiando più erba l’animale è costretto a ridurre la produzione, riduzione che determina una concentrazione delle molecole, di tutte le molecole, ridando anche equilibrio alle stesse. Il modello sta funzionando perché il consumatore, quando ha la possibilità di assaggiare il prodotto e sente che la qualità è
quella attesa, allora non guarda il prezzo, chiede solo garanzie e certificazione. Abbiamo allora traferito il “Metodo Nobile” a tutti gli altri alimenti, compreso il vino. Quando la rivista uscirà saranno già sul mercato i primi prodotti, sarà attivo anche il sito da cui i consumatori potranno trarre informazioni sia sulle ragioni scientifiche del modello e sia sui produttori. Per il momento ci basta sapere che una alternativa al modello unico c’è. E che ce ne potrebbero essere anche altre, se il Metodo Nobile dovesse fare scuola. La democrazia, in gastronomia, ha fatto un passo avanti.