di Roberto Rubino
La crisi, praticamente endemica, dell'agricoltura e la pandemia si apprestano a determinare risvolti che possiamo solo immaginare ma le prime avvisaglie non promettono niente di buono.
Perché parlo di crisi endemica?
Perché da almeno un paio di decenni la produzione aumenta più dei consumi, nonostante una moria delle aziende che credo sfiori il 70%.
Quindi, ogni anno si accumula o si butta una quantità di prodotto piccola, se ci limitiamo al singolo paese e al singolo settore, ma enorme se pensiamo al mondo agricolo nella sua globalità.
Questo continuo accumulo non solo determina crisi cicliche ma finisce per avere conseguenze di non poco conto sul settore.
In linea di massima, le conseguenze sono due.
Da una parte la qualità dei prodotti tende a diminuire, perché, dovendo mantenere bassi i costi, l'aumento obbligato delle rese per ettaro non può non determinare una deriva della qualità.
Dall'altra, le politiche di intervento a sostegno, essendo basate quasi esclusivamente sullo svuotamento dei magazzini, finiscono per non stimolare i produttori a trovare via alternative, che vadano in direzione della risoluzione o contenimento del problema, e cioè di un riallineamento della produzione al consumo.
Proviamo a fare una rapida rassegna.
Nel mondo del vino, le cantine sono strapiene e da più parti si invocano interventi.
Solo la Francia, nella zona del Bordeaux, ha chiesto una riduzione della superficie vitata per quasi 10.000 ha. In genere si chiedono solo interventi a sostegno.
E non a caso, dopo mesi di trattative, la Commissione europea ha pubblicato le nuove disposizioni eccezionali a sostegno dei settori ortofrutta e vino, messi in ginocchio anche dalla politica commerciale adottata del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Il settore caseario non è da meno.
Negli ultimi mesi sono state ritirate dal mercato, o meglio, sono state regalate agli indigenti, forme di formaggio per oltre 40 milioni di euro.
È anche di questi giorni la notizia che il mondo dell'olio è sul piede di guerra perché il prezzo sta crollando, visto l'invenduto degli anni scorsi.
Quale è la proposta dei produttori?
È sempre un “Cicero pro domo sua” o un “così fan tutti”: blocchiamo l'olio tunisino.
Che è poi la stessa filosofia dei granicoltori, che cercano di bloccare le navi con il grano canadese, o degli allevatori, che bloccano il latte che viene dall'Est, o dei risicoltori con il riso cambogiano, ecc.
Vogliamo esportare, ma non deve entrare prodotto straniero!
Nel caso dell'olio la proposta è soprattutto degli spagnoli, che sono i principali responsabili di questo eccesso di produzione.
La Spagna produce due terzi dell'olio comunitario. Ha trasformato l'Andalusia, una volta terra arida e semideserta, in un immenso bacino oleicolo dove l'olivo viene coltivato con metodi fortemente intensivi.
Invece di darsi una regolata, di abbassare almeno l'uso dell'acqua, ottenendo così anche un olio migliore, chiede di bloccare l'olio della Tunisia; sempre meglio prendersela con i più deboli.
Certo, la situazione è difficile, il covid ha accelerato ed esasperato una crisi latente, però spesso si dice che la crisi può essere una opportunità. Ma le soluzioni che di volta in volta vengono proposte non mi sembra che vadano in questa direzione.
Non voglio addentrarmi in una serie di proposte, non è questa la sede, ma vorrei che i produttori, una volta tanto, si mettessero dalla parte del consumatore.
Ora non lo fanno, per loro noi siamo dei numeri, tutti uguali, e non è un caso che il prezzo delle materie prime sia unico è uguale per ciascuna di esse.
Io vorrei far capire al produttore, fatta eccezione per il mondo del vino, che se entro in un bar, vorrei scegliere il caffè da degustare. Invece il barista ne ha uno solo e costa lo stesso prezzo in tutta la città.
Se vado dal macellaio c'è un solo tipo di carne, allo stesso prezzo, per tutto l'anno e in tutte le macellerie.
Se voglio comprare il riso, l'unica scelta che ho è quella della varietà, mai del livello qualitativo, che non conosciamo.
Non ne parliamo della pasta, visto che tutti si limitano a parlare di proteina, ma io so che la proteina non ha niente a che fare con l'aroma e il valore nutrizionale.
E i salumi? E i formaggi? Tutti animali o quasi sono allevati alla stalla e alimentati in maniera non certo ottimale, visto che è sull'alimentazione che si deve risparmiare. E così si fa fatica a trovare un buon prosciutto o un salume; della carne ho già detto e ormai ho rinunciato a mangiarla.
Nel mondo dei formaggi per fortuna ci sono gli alpeggi e i pascoli in generale, ma riguardano una produzione marginale, peraltro in difficoltà perché il settore è dominato dal modello intensivo, che detta le regole e la stessa cultura. E i bandi a favore degli indigenti ne sono la prova.
E l'olio, tanto decantato?
Perché, se tutto è extravergine, i prezzi sono così diversi?
Come faccio, da consumatore, a capire quale è il rapporto prezzo/qualità? Se un olio buono non può costare meno di 7 euro, perché ci sono oli che costano anche 50 euro?
Ci dite per favore come faccio a capire le differenze e da cosa dipendono?
E non mi rispondete che bisogna imparare a degustare l'olio.
Non sono un esperto, ma se le categorie previste nei concorsi si limitano al fruttato, più o meno, se cioè anche nei concorsi tutti gli oli extravergine possono partecipare nella stessa categoria, perché allora queste differenze di prezzo?
Non sarebbe il caso che si incominciasse a parlare di classi di qualità?
Dobbiamo, dovete mettere il consumatore in grado di scegliere in base al livello qualitativo e non a messaggi vuoti e banali tipo: razza, varietà, trafilata in bronzo, lievito madre, ecc.
Quindi, è giusto intervenire, ma le soluzioni proposte non certo vanno nella direzione auspicata.
Noi consumatori saremo sempre più messi in difficoltà, ma i produttori non usciranno dalla crisi perché le soluzioni adottate servono solo a dare ossigeno ad un malato che comunque morirà se non si cambierà terapia.